“AIUTO, MI HANNO CAPITO!” La carestia di ascolto nella civiltà del rumore

Inviato da Nuccio Salis

bambina 

Se ne fa un gran parlare, di ascolto. Seminari, convegni, incontri, corsi; tutta una serie di eventi e appuntamenti dedicati alla più grande penuria del nostro tempo: l’esperienza dell’essere ascoltati. I succedanei tecnologici, per quanto utili, divertenti e sofisticati, non sembrano affatto soddisfare tale profonda esigenza dell’essere umano. Utilizzati molto spesso proprio per finalizzare questo essenziale bisogno, essi mostrano tutti i loro limiti dal momento che, paradossalmente, adoperati nel tentativo di raccorciare virtualmente le distanze geografiche e spaziali, sembrano sortire l’effetto di aumentare quelle psicologiche. Un carosello di false identità, di rischi, di superficialità e pressapochismo nello scambio ‘digito-epistolare’, lascia sovente il fruitore di tali dispositivi con una lacerante sensazione di fallimento e di solitudine, ancora maggiore rispetto a quella sperimentata prima di aderire alla piattaforma informatica.


La straordinaria potenzialità degli strumenti, ancora una volta, è svalutata dall’immaturità delle forme di relazione e dei modelli di comunicazione dominanti. Lungi infatti attribuire responsabilità ad un congegno elettronico, in quanto oggetto non pensante. Qui, l’unico nemico di se stesso è l’individuo medesimo. Egli, fortemente influenzato da una società che promuove tipologie disfunzionali dei rapporti umani, finisce con il rimanere disorientato, frustrato, inappagato, generando dentro sé un vissuto di disadattamento sociale, di superficiale conoscenza di sé e di generale disinteresse a ciò che invece può riempirlo di senso, di stima e di valore.
Si finisce progressivamente per convivere con il vuoto dentro cui si annichilisce, credendolo come l’unica realtà possibile. Una parte dentro di sé continua comunque a soffrire. Si tratta di quella dimensione di ciascuno di noi che sente la necessità di connettersi a una irrinunciabile fonte di stimolazioni positive, autentiche e spassionate, da cui assurgere quell’importante esperienza da cui poi si elabora una immagine di sé piena di risorse, valori e qualità da potenziare.
Questa profonda istanza è decisamente ignorata e ferita nella società contemporanea, disattenta all’importanza della creazione di rapporti umani costruttivi, empatici e solidali. Sulle conseguenze di tale fenomeno è già stato scritto di tutto, specialmente nell’incresciosa cronaca quotidiana.
Solitudine, nichilismo, superficialità, apatia, incomunicabilità, malessere esistenziale, sono le manifestazioni principali di una generazione che rinuncia sempre più alla vita, invasata dai vitelli d’oro di una società materialista, organizzata di tutto punto come macchina trita-umani.
Quel dolore a cui spesso non si sa dare un nome, per analfabetismo emozionale, altro non è che penuria di ascolto. Un urlo silenzioso che può diventare lacerante per chi vuole sviluppare la sensibilità di intercettarlo.
L’esperienza dell’essere ascoltati, compresi, non giudicati, è talmente più unica che rara, ormai, nella vita di ciascuno di noi, che infatti si paga qualcuno affinché lo faccia! Questa circostanza, da sola, basterebbe a rappresentare il declino e il fallimento dell’attuale civiltà umana occidentale.
E se chi è deputato a farlo, lo fa anche bene, questa si pone addirittura come esperienza destabilizzante, per colui/colei che la esperisce. “Ma come, qualcuno mi ascolta? Dov’è finito il mio mondo di sicure insicurezze? Aiuto, e ora che faccio? Cosa dovrebbe ancora succedermi, di così imprevedibile ed incontrollabile?”
Prima di un tale episodio, ci si poteva almeno rifugiare nella rassicurante immagine dello “strano soggetto”. Ora che si prospetta la caduta del velo, invece, come fare per poter reggere all’idea di poter essere perfino una persona di valore? Assai duro, un simile cambiamento, per chi ha appiccicata addosso ogni squalificante etichetta. Mica facile sentire il pericolo di non poter ricevere più attenzioni una volta esentati dallo status di sfigato, ridicolo o perdente.
Identità, dignità, senso, appartenenza; sono questi gli elementi che un buon processo di counseling punta a ridimensionare nel vissuto di una persona. Restituire a ciascuno, prima di tutto, il significato di un’azione volitiva orientata sempre alla ricerca e all’espressione di se stessi, in modo autentico, trasparente e genuino. Sviluppare questo punto è quanto di più coraggioso, valoroso e trasgressivo oggi si possa promettersi di fare. È un percorso assai impegnativo giungere a questa nuova consapevolezza, specie se l’abitudine a percepirsi in un’area personale di disvalore, è stata fino a quel momento l’unica rotta possibile di approdo. La mente umana, se non nutrita di nuovi stimoli e di energia creativa, entra in un cortocircuito stereotipo che ne mortifica ogni potenzialità, e finisce per credere che è vero solo ciò che si ripete, ciò che è più diffuso, ciò che è più comunemente accettato, condiviso e accolto come unica verità sovrana e indiscussa.
Continuo a rimanere impressionato da un passaggio che il noto Carl Rogers riporta in uno dei suoi mirabolanti saggi, cercando di percepire ed intravedere empaticamente cosa sente dentro sé una persona, quando compie l’esperienza dell’essere ascoltata. Egli scrive questo:

“Ho parlato di cose nascoste, parzialmente velate a me stesso, sentimenti che sono strani -probabilmente anormali- sentimenti che non ho mai comunicato a nessun altro, e con questa chiarezza nemmeno a me stesso. Eppure, un’altra persona ha capito, ha capito i miei sentimenti perfino più chiaramente di me. Se qualcun altro sa di cosa sto parlando, sa quello che voglio dire, allora, perlomeno fino a questo punto, non sono così strano, o alienato, o isolato. Per un altro essere umano ho un senso. Così, sono in contatto, addirittura in rapporto con altri. Non sono più isolato (…)
Quest’altro individuo si fida di me, pensa che ne valgo la pena. Forse ho qualcosa di valore. Forse io potrei apprezzarmi. Magari potrei prendermi cura di me stesso”
(da “Un modo di essere”, di Carl Rogers, pp. 160-161)

Un frammento piuttosto edificante su come possa essere ridisegnata l’inadeguata percezione di se stessi, cominciando a puntare sul valore personale, cioè investire sull’idea nuova circa la possibilità di possedere delle qualità, di poter quindi essere accolti, apprezzati, di meritare ascolto e comprensione. Piccoli e grandi mattoni di un percorso che nella nostra società è stato reso tortuoso e sofferente, e che pur con qualche aiuto, ciascuno di noi è chiamato a riprendere.
 

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