Sì, qui ed ora il cambiamento l’ho visto in questa mia esperienza all’interno della comunità terapeutica. Ma anche in altri contesti ho potuto assaporare il gusto del cambiamento. In altri contesti, come per esempio il contesto di strada, dove l’intervento assume una finalità di presenza costante e ascolto. Per me è stato significativo non fermarmi ad attendere un qualche evento o segnale che mi stimolava ad intervenire, ma avere uno spirito di ricerca e prevenzione che mi portava nei luoghi e mi faceva trovare nelle situazioni, senza essere invasivo ma pronto ad ascoltare, storie, richieste e aiuto, da chi in certe situazioni, preso da sensi di colpa, non aveva il coraggio di proporsi. Strumento principale di questo metodo è la relazione come atto educativo, intesa come riferimento adulto per il soggetto: riferimento che sappia essere presente e sufficientemente saldo per sostenerlo nella difficoltà.
Nella relazione entrano in gioco elementi variabili: la soggettività delle persone coinvolte, la comunicazione tra i soggetti, la disponibilità o la chiusura all’incontro; essere nella relazione deve rappresentare il punto di riferimento costante per ogni azione educativa, in particolar modo sulla strada. L’azione educativa e di counseling nel lavoro di strada è fin dall’inizio sensibile alla libertà personale del soggetto, orientata all’allargamento di orizzonti e punti di vista, alla ricerca di valori non stereotipati, ma costruiti e ripensati volta per volta durante l’incontro intersoggettivo che ne costituisce l’elemento cardine. La relazione deve fondarsi su di un reale scambio con l’altro.
Questo modello consente di cogliere che la comprensione dell’altro deve essere continuamente costruita, e induce a considerare la nozione di dialogo come un elemento fondamentale nel lavoro di strada, un dialogo che non rappresenta un’esperienza accessoria ma che radica i suoi contenuti nell’esperienza e nella vita della persona.
Comunicare significa cercare nell’altro un elemento di confronto e di crescita, restituendogli fiducia. Tutto questo significa, nella concretezza del lavoro, porre l’attenzione su un ascolto che si prefigge delle regole precise, la sospensione del giudizio, la partecipazione critica e interessata (che riporta alla centralità la persona), la valorizzazione dell’esperienza personale, la possibilità di trasmetterla. In questa ottica, operare in strada per me ha significato rimettersi in discussione in prima persona, giocarmi nel confronto, lontano dall’idea di essere l’unico portatore di verità, ed essere disponibile a modificarmi nell’interazione.
Si tratta essenzialmente di assumere uno stile educativo fondato sull’entropatia, ossia su quella tecnica pedagogica volta a cogliere la visione del mondo dell’altro. L’entropatia non implica affatto l’annullamento di una distanza critica da parte dell’operatore nei confronti della visione del mondo dell’altro, quanto la sospensione momentanea degli schemi interpretativi nella fase di costruzione di una rappresentazione di questa. Concretamente significa pensare all’altro cercando di mettere da parte i miei/nostri giudizi abituali. L’idea che guida il lavoro di strada è quella di un’azione educativa che apra il più possibile ad un incontro.
Uno degli strumenti più efficaci è quello di stimolare i diversi target a lavorare sull’elaborazione delle proprie storie di vita, a rileggere la propria esperienza rispetto ad una possibilità di futuro, o ancora alla luce del presente e qui per me si è inserito il lavoro di counseling. Lavorare con un atteggiamento a-valutativo, che non insinua forme di stigmatizzazione svalutative nei confronti dell’altro, senza, nel contempo, produrre false alleanze e collusioni, non è un compito semplice. Molte volte lo sviluppo della relazione favorisce iniziative di accompagnamento ai servizi. Ritengo che il lavoro di strada si presenti oggi come una vera e propria metodologia di intervento sociale.
Il focus dell’intervento diventa così la strada, con tutte le valenze che questo comporta; anzitutto l’imprevedibilità, l’incertezza, poi le varie forme di disagio che nella strada si possono trovare. I ragazzi a cui si rivolge l’operatore di strada è profondamente diverse da quelli ai quali si rivolgono spontaneamente ai servizi. Semplicemente perché nega, sul piano verbale, un bisogno di aiuto sottolineato da comportamenti disturbanti o dannosi per se stessi e per gli altri. La costruzione di un’alleanza capace di creare le premesse del cambiamento passa inevitabilmente attraverso una strategia di ascolto. Il comportamento di un barbone, di un tossicodipendente o di una prostituta, è negato come comportamento sintomatico in quanto è vissuto e presentato come necessario e utile alla persona che lo manifesta. Interventi centrati sul tentativo di eliminarlo senza contropartite plausibili servono solo a creare le condizioni di un irrigidimento progressivo della condotta, sviluppando una diffidenza profonda nei confronti di tutti quelli che tentano di intervenire.
La possibilità di rispondere in modo concreto è basata sull’accettazione del punto di vista dell’altro. In questo senso l’operatore counselor deve negare apertamente la relazione di aiuto all’utente che non ha espresso richieste, il messaggio che il counselor lascia passare è quello di un interesse verso i comportamenti dell’utente affinché da essi il tossicodipendente, ad esempio, non riceva danni eccessivi. Accompagnare e sostenere questo tipo di utenti può significare, in questi casi, rinunciare a programmi ambiziosi (il recupero sociale) e limitarsi a immaginare l’effetto di interventi limitati, il piacere di un pasto caldo o di un letto nel momento del bisogno, la possibilità si scambiare parole con qualcuno che si interessa senza nulla chiedere in cambio e che non elargisce consigli.
Un’altra ipotesi su cui l’operatore di strada può costruire il suo intervento è quella di un avvio dell’utente al servizio ritenuto per lui più adatto. L’operazione è basata sullo sviluppo di una coscienza della necessità e della possibilità di essere aiutato. Spaventato dalla routine impersonale delle strutture sociali e sanitarie, l’utente va accompagnato spesso fisicamente nel luogo dove è possibile curarlo e va aiutato a formulare la domanda. Il vissuto di sofferenza che può derivare da un’esperienza di tossicodipendenza riuscirà a divenire segnale di cambiamento quando esso potrà essere canalizzato in maniera costruttiva, funzionale all’evoluzione psichica, e in grado di aprire nuovi orizzonti nel processo di cambiamento. Al contrario, il dolore che rimane bloccato, inespresso, resta fonte di debolezza, di inibizione, impedisce al sé di emergere nella sua autenticità.
Domenico Perrupato
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