Per devianza si intende comunemente ogni atto o comportamento (anche solo verbale) di una persona o di un gruppo che viola le norme di una comunità e che di conseguenza va incontro a una qualche forma di sanzione. La devianza non è una proprietà di certi atti o comportamenti, ma una qualità che deriva dalle risposte, dalle definizioni e dai significati attribuiti a questi dai membri di una collettività. Questa idea è stata bene espressa da Emile Durkheim. Non bisogna dire che un atto urta la coscienza comune perché è criminale, ma che è criminale perché urta la coscienza comune. Non lo biasimo perché è un reato, ma è un reato perché lo biasimo. Poiché le risposte della collettività variano considerevolmente nello spazio e nel tempo, un atto può essere considerato deviante solo in riferimento al contesto socio-culturale in cui ha luogo. Bisogna tener conto, dunque, per definire un’azione come deviante le variabili del contesto storico, politico e sociale e della situazione. In altre parole un atto può essere considerato deviante solo in riferimento al contesto socio-culturale in cui ha luogo. Se si eccettano alcuni universali culturali, come ad esempio l'incesto, il furto o l'omicidio tra membri dello stesso gruppo, qualsiasi atto deviante dipende dal contesto che lo sanziona come tale.
In questa tesi voglio evidenziare la ricerca ed il lavoro che la pedagogia svolge per comprendere meglio quelle dinamiche comportamentali che si manifestano in soggetti disadattati e devianti. Trattando per quello che mi riesce, (forse azzardando un po’), il pensiero del prof. P. Bertolini, usando la prospettiva teoretica della fenomenologia come strumento di analisi, per avvicinarsi il più possibile al significato e al senso che un individuo dà alla propria esistenza, nello specifico a quegli individui che esperiscono in maniera distorta o di assenza dell’intenzionalità . Individui che trovano spesso difficoltà di adattamento e nei comportamenti di cui in qualche modo si dipende, esigenza nel cercare riferimenti comportamentali per soddisfare tensioni, slacciandosi dalla realtà e raggiungendo uno stato di abbandono, incapacità del soggetto di sentirsi partecipe di quella realtà che per lui è significativa e compatibile con realtà significative di altri, sfociando per molti casi in stili di vita con atti devianti o assumendo sostanze, illudendosi di porre rimedio al suo stato di abbandono.
Rappresentazione di sé con una visione del mondo per loro appagante che garantisce sicurezze, inibendo quello che sono i valori individuali e autentici, le condizioni del contesto di vita, con profonde carenze relative alla loro formazione fanno si che questi individui non riescono a soddisfare bisogni di partecipazione, indipendenza, autostima, significativa nell’età preadolescenziale e adolescenziale, dove l’individuo è nella fase evolutiva della costruzione e definizione della propria identità. In una complessa interazione con l’ambiente circostante, dove l’individuo esperisce la sua esistenza in costante confronto tra soggettività e oggettività, vivendo con difficoltà e non agendo con coerenza, al punto di subire la relazione tra sé e mondo. In un continuo evolversi di eventi, con analisi e riflessioni ci si trova a conoscere presupposti, per certi versi distanti tra loro, ma volti insieme a disciplinare il disagio esistenziale. Disagio che comprende diverse fasce generazionali, minori, giovani e adulti. Un’altra categoria di minori, in genere individuata come destinataria di interventi rieducativi, è quella dei ragazzi difficili. Si tratta di quei casi in cui il luogo della difficoltà non è più individuato solo nel contesto di vita (materiale e relazionale) del ragazzo ma nella sua assunzione di atteggiamenti o moduli comportamentali più o meno sistematicamente disadattati.
Sono adolescenti o preadolescenti che in risposta a situazioni percepite come dolorose o anche solo critiche, in risposta a condizioni di vita educativamente inadeguate, hanno consolidato atteggiamenti tendenzialmente lesivi di sé o del contesto in cui vivono. Le reazioni messe in atto come risposta ad una certa interpretazione del proprio mondo relazionale oscillano dall’assunzione di atteggiamenti svalutativi o oppositivi (senso permanente di fallimento, rivendicazione continua di una fittizia autonomia, ecc…) alla messa in atto di comportamenti definibili come irregolari (fughe da casa, abbandono della scuola, piccoli furti, reazioni aggressive nei confronti di cose o persone, ecc…). Anche in questi casi, a monte della condizione di “disadattamento” e dei comportamenti che la possono connotare, è possibile riconoscere una difficoltà a percepirsi come soggetto, riconducibile, in ultima analisi, a carenze di ordine educativo.
Oltre al percepire carenze educative, altri studi di diversa provenienza disciplinare hanno spiegato le cause della devianza, in ordine biologico, come indicano le teorie di C. Lombroso , quello di individuare configurazioni di fattori neurologici che determinerebbero sindromi, come il danno minimo cerebrale (DMC) o discontrollo episodico, associate quindi a comportamenti violenti, agressivi e devianti. Approcci psicologici o psicoanalitici portano l’attenzione su tratti della personalità o del carattere, che comunque sono il prodotto di mediazioni cognitive ed emotive dell’individuo in un determinato contesto, intrinseco di relazioni entro cui acquistano un significato importante per l’individuo stesso.
Si può affermare che il sintomo, interpretabile come una modalità particolare di comportamento, funziona da meccanismo omeostatico regolatore delle transazioni familiari con il fine ultimo di mantenere l’equilibrio dinamico del sistema. L’adolescenza è caratterizzata da molti cambiamenti, come d’altra parte lo sono anche l’infanzia e l’età adulta, tutte le età dell’uomo. La difficoltà di adattamento può manifestarsi per cause differenti, e che quindi non è possibile affermare che esiste una precisa tipologia familiare nella quale può svilupparsi una situazione di disagio, significativo credo sia acquisire un certo grado di autocontrollo, la capacità di mediare sugli atti, che siano congrui alla rappresentazione di sé nel mondo con gli altri, in uno scambio reciproco e relazionale di intenti e significati.
Riconoscendo l’altro non solo nella sua diversità, ma volgendo lo sguardo in quella diversità scrutandola e scoprendo l’incontro, pronto a suscitare nuovi stimoli. La relazione come atto educativo, col fine di essere l’anello mancante in quegli atteggiamenti che rendono l’individuo incapace di porsi senza pregiudizi. La capacità di mediare sugli atti che momento dopo momento esperisce in relazione con l’ambiente circostante, trovando sostegno nelle differenze ed una vera consapevolezza di se, per non identificarsi in un giudizio negativo su se stessi, rivelando un certa credibilità della propria insufficienza non riuscendo a progettare un futuro valido per lui con gli altri. In questo atteggiamento di mancata autostima non fa altro che inserirlo in un circolo vizioso, di dipendenza da sostanze o da persone a cui fa riferimento il senso della sua esistenza.
Una costante del deviante\dipendente è quella di ricercare la soddisfazione immediata, con ripetitività e compulsività, perché non c’è niente di più significativo di quello che accade qui ed ora, fruire con intenzionalità momento per momento di una soddisfazione più intensa possibile, variabile che accredita la definizione del deviante è l’incidenza del gruppo come quadro di riferimento entro cui si definiscono i comportamenti, dove trova altri soggetti che rinforzano e si compensano reciprocamente.
Domenico Perrupato
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