COUNSELING E AUTONOMIA. Riflessioni sull’etica dell’Essere e dell’agire

Inviato da Nuccio Salis

autonomia

Qual è la solenne aspirazione che un counselor mira a raggiungere per i propri clienti? Facile pensare all’autonomia. L’atto dell’auto-nomos, ovvero la capacità di conferire a se stessi una propria identità unica e originale, di leggersi introspettivamente, esercitando la propria volontà autodeterminante, è un’azione che richiede maturità e un’abbondante motivazione personale.
Il counselor, non soltanto dovrebbe aiutare la persona a non avere più bisogno del professionista dell’aiuto, ma ha il dovere di promuovere una cultura della non dipendenza e del distacco. Il counselor influisce sul panorama sociale aiutando preventivamente gli individui a dichiararsi sovrani di se stessi, e ad evitare ogni ipotesi di attaccamento: dai comportamenti di rischio fino alle dipendenze affettive e alimentari, da abitudini ritualistiche, da ideologie obsolete e sepolte, da tutto ciò che porta un essere umano ad abbeverarsi acriticamente dal santone di turno, sia esso accreditato o meno da criteri di scientificità.
Il counselor non traghetta anime da una sponda all’altra, semmai insegna loro a nuotare, ammesso che egli ne sia un degno maestro.


Assodato largamente il fatto che non si induce l’altro ad assumere il nostro modello di riferimento, né lo si guida come fosse incapace o immaturo, e nemmeno lo si consiglia, suggerisce, dirige, condiziona in alcun modo; ciò non basta. Se il fine è quello della libertà della persona, a questa va insegnato a non aver bisogno mai di pagare qualcuno per trovare la via maestra.
Personalmente, quando qualcuno mi chiede di aver bisogno di un supporto professionale, chiedo sempre “E’ sicuro/a di aver bisogno di me? Cosa glielo fa pensare?” E mi chiedo, al tempo stesso “Ma come mi permetto io di propormi come adatto ad aiutare qualcuno? Chi sono?” E la domanda che mi rivolgo è, per l’appunto “Chi sono?”, non cosa faccio o cosa studio, perché per essere degni soltanto di pensare di poter efficacemente aiutare qualcuno, a mio avviso bisogna prima Essere che Sapere.
Qui non si tratta di una percezione di insicurezza sulla strumentalità e sulla metodologia del proprio agire professionale (e ben venga anche quella), si tratta più della necessità di avviare una riflessione su come, ritrovandosi di fronte a persone in difficoltà, si possa essere davvero di una qualche utilità, rispettando fino alle estreme conseguenze la meta finale che consiste nella libertà dell’individuo.
Ciò costituisce una responsabilità che forse merita di essere rilanciata con forza, ogni volta che ci si accinge ad entrare nel delicato mondo privato di una persona che accusa disagi dovuti a periodi di instabilità e di incertezza nella propria vita.
Come figura dell’aiuto, il counselor ha storicamente almeno un merito: che ha poi contagiato altre professioni del sostegno alla persona; e questo va riconosciuto nell’aver posto il problema su come poter accogliere l’altro senza abusare della spontanea complementarietà che si crea fra soggetto che chiede aiuto ed esperto intriso di autorità scientifica che lo offre. Questo problema lo ha riportato nella formazione del consulente che eroga servizio alla persona, ed è ora l’epicentro deontologico e scientifico che qualifica e connota la figura del counselor. Tuttavia, il modello relazionale proposto e costruito dal counselor durante la sua attività, non è scevro dal risentire della tipologia inflazionata che caratterizza il rapporto fra “dottore” e consultante; vale a dire che in ogni esperienza di consultazione siamo chiamati a prevenire l’abuso che si può facilmente sviluppare ai danni di un soggetto debole e vulnerabile, che è l’appellante con la sua domanda di aiuto, e l’esperto titolato come solutore di problemi. Suggestione culturale assai fascinosa e romanzata, prevede che il professionista che accoglie il suo cliente sia un sapiente, un oracolo dal responso infallibile, privo certamente di problemi esistenziali, e se ce li ha li risolve con le sue ricette, provvisto com’è di poteri arcani e taumaturgici.
Il counseling, come ogni altro processo in dinamica di aiuto, ricalca questo desiderio del magico, ricostruisce suo malgrado un atelier dai contenuti mistici e divinatori, dentro cui è facile ricreare quelle atmosfere pregne di una suggestione quasi ipnotica. Il counselor ha l’obbligo di sottrarsi a questo potere, e di restituirlo nelle mani dell’unico proprietario e custode della vita del suo interlocutore: il cliente stesso.
Il counselor demolisce questa comoda cornice che da una parte offre a se stesso autorità spregiudicata, e d’altra parte trasferisce al cliente una sicurezza che travisa però nella delega all’esperto. Ed ecco perché dico che il counselor, prima di agire e occuparsi di qualcuno, deve chiedersi, e richiedersi più volte, se e quanto egli accetta e promuove il cambiamento nella sua stessa vita, prima di tutto, e fino a quanto è disposto a destrutturare un setting che conferisce un mandato di potere sugli altri, e quindi cosa intende per autonomia dell’altro.
La capacità di detronizzarsi, di farsi ultimi, di umiliarsi e non di esaltarsi, di svestirsi delle suggestive attribuzioni esterne, può essere quella virtù che potrebbe fare davvero del counseling un sostegno a favore della libertà totale dell’altro, e dell’individuo in seno a una comunità che urge rieducare, dal momento che ancora oggi, la relazione di aiuto è percepita esternamente come un rapporto unilaterale fra un esperto (sano ed equilibrato) ed un bisognoso (incapace e immaturo).
Al counselor il compito di divulgare riflessioni mature e profonde sul concetto di autonomia, libertà e responsabilità, purché mostri a se stesso di avere sufficiente credibilità sul piano dell’Essere, e dunque sul livello di congruenza fra valori rappresentati e aderenza reale agli stessi.
Il counselor deve credere e incarnare i valori che propone. Se parla di autonomia, libertà e responsabilità, deve immettere nella comunità nuovi modelli di relazione e di rinascita della persona, finanche a sentirsi disposto a pensare che un giorno, le persone, avendo imparato ad aiutarsi fra loro, potranno costruire una società giusta, equa, solidale e collaborativa, dove non ci sarà bisogno del counselor, perché ciascuno potrà imparare ad avere se stesso come spirito guida.
Il compito del counselor, affidatogli dal suo Essere, prima che dalla sua disciplina, ha risvolti etici e deontologici che forse val la pena di approfondire e rinfrescare. Questo è il mio modesto invito, e che rivolgo costantemente prima di tutto a me stesso.
 

Potrebbero interessarti ...