Il termine counseling deriva dal verbo inglese to counsel, che risale a sua volta dal verbo latino consulo-ĕre, traducibile in "consolare", "confortare", "venire in aiuto" ed indica appunto la relazione di aiuto attinente a problemi non specifici e contestualmente circoscritti, che non attengono ad una sfera sintomatica o patologica, né presuppongono una presa in cura terapeutica a lungo termine, ma possono riguardare situazioni di vita quotidiana di ciascun individuo.
La metodologia utilizzata dal counselor per offrire questa relazione d'aiuto si fonda su competenze relazionali quali l'ascolto non giudicante e la capacità empatica, finalizzate a stimolare il cliente affinché trovi egli stesso le soluzioni più idonee alla propria condizione di difficoltà.
Chi si rivolge al counselor è una persona bisognosa d'aiuto, un individuo che, bloccato dalla propria sofferenza, necessita di un'altrui visione per potersene svincolare e acquisire nuovamente, così, la propria originaria e ontologica condizione di felicità e benessere interiore.
In prima istanza va sottolineato che rispetto alla psicologia, il cui fine è diagnostico prima ancora che terapeutico e che necessita quindi di opportuni strumenti e linee guida per la categorizzazione di specifici sintomi, il counseling si pone come una relazione d'aiuto non strutturata, in cui il cliente viene considerato individuo unico ed irripetibile, con le proprie caratteristiche di personalità, le proprie tendenze, i propri gusti, ed anche con la propria ambivalenza, elemento, quest'ultimo, comune a tutta la specie umana, ma con dominii e sfumature peculiari in ciascuno.
La letteratura psicologica è costellata di categorie inerenti le persone: i principali manuali diagnostici utilizzati in ambito sanitario (ICD-10 e DSM-IV-TR) non sono altro che classificazioni di sintomi che sottendono diverse categorie psicopatologiche, o si pensi ad esempio ad i tipi psicologici junghiani, che identificano invece i tratti salienti degli individui secondo diversi parametri (introversione-estroversione in primis e pensiero, sentimento, intuizione e sensazione poi). Questo attiene, come precedentemente accennato, ad una finalità, da parte della scienza psicologica, di semplificare il processo di analisi (diagnosi), per giungere poi più facilmente ad una sintesi (terapia); senza tali griglie conoscitive o linee guida, specie in ambito psicopatologico dove il focus peraltro si sposta dalla persona alla malattia, sarebbe assai più arduo identificare le aree di difficoltà sulle quali intervenire e non si potrebbe beneficiare del patrimonio conoscitivo della letteratura terapeutica precedente.
Dal momento che il counseling non si pone come pratica diagnostica, né tantomeno terapeutica in senso stretto, sarebbe opportuno non si fondasse su categorizzazioni o schemi conoscitivi atti ad inquadrare (con il conseguente rischio di stigmatizzare) tratti che sono propri di ciascun individuo, quanto piuttosto sull'ascolto presente ed empatico del cliente, quale individuo a sé stante e diverso da chiunque altro.
Come specificato nell'introduzione, il counseling bhaktivedantico fonda le proprie radici sui principi teorici e pratici della millenaria Scienza Indovedica, la quale, per definizione, è di natura olistica ed offre dunque una visione ad ampio spettro che include varie discipline quali la filosofia, la psicologia e l'antropologia.
Per questo è importante evidenziarne i tratti salienti per comprenderne i principi e la visione che sottendono tutta la trattazione in essere e che non possono essere scissi dal modello di counseling presentato dal Centro Studi Bhaktivedanta.
Entro questa cornice teorica, a determinare le differenze individuali che rendono ciascuna persona identica solo a sé stessa, sono guna e karma.
I guna (termine sanscrito letteralmente traducibile con “corda”, “caratteristica”, “qualità”) indicano le tre energie intrinseche della natura materiale (prakriti) che determinano il condizionamento degli esseri incarnati (jivabhuta). Esse sono: tamas, cioè letargia, ignoranza, pigrizia, stolidità, disordine, ritardo, mancanza di visione; rajas, corrispondente ad attività frenetica, passione, dinamismo inarrestabile, desideri intensi, ansietà, avidità, creatività, competitività, spirito di antagonismo; sattva, che indica riflessione, equilibrio, verità, bontà, leggerezza, luminosità, altruismo, lungimiranza, armonia. Tra i diversi significati del termine appare particolarmente interessante quello di ‘corda’, ad indicare come queste influenze leghino l’essere vivente all’universo della prakriti.
Queste tendenze, latenti o meno, caratterizzano infatti la forma mentis e il carattere di un individuo: si definisce influenzata da un determinato guna una persona che ne esprime le caratteristiche in misura maggiore rispetto alle altre, anche se è molto raro che una persona sia dominata esclusivamente da un solo guna, proprio perché ciascuno di questi ha una propria funzione entro la vita quotidiana di ognuno: senza tamas il riposo non sarebbe possibile, senza la forza di rajas non si darebbe il via a nessuna opera, ma di tutte e tre quella che risulta comunque più ricercabile quale predominante nel carattere individuale, è senza dubbio sattva, la virtù, che rende possibile il mantenimento di tutto ciò che viene conseguito dalle altre due forze. Non a caso, l'equilibrio rappresentato da sattva, costituisce anche la base di partenza per poter compiere salti evolutivi, spiritualmente parlando, che non sarebbero possibili se lo stile di vita fosse dominato da tamas o rajas.
Il termine karma deriva invece dalla radice sanscrita kr che significa “fare” e rappresenta al contempo il bagaglio esperienziale che vita dopo vita abbiamo accumulato quale conseguenza dei nostri, desideri, pensieri, parole e delle nostre azioni, sia la legge universale che determina il costituirsi di questo bagaglio, ovvero la cosiddetta legge di reciprocità o di “remunerazione delle azioni”.
Secondo questa legge universale e senza tempo, qualunque azione compiuta sul piano materiale, determina una conseguenza identica per l'agente, che a seconda del tipo di azione benefica o non, riceverà una conseguenza positiva o negativa della medesima portata.
Questa legge non è come può sembrare qualcosa da temere o l'espressione di una Divinità punitiva, quanto piuttosto l'espressione più alta della giustizia e della liberalità che, se sul piano umano purtroppo risultano spesso carenti, sul piano universale sono sempre operanti ed indefettibili.
Tutto ciò che abbiamo fatto, che stiamo facendo e che faremo, ha un suo portato consequenziale, di cui abbiamo sperimentato, sperimentiamo e sperimenteremo gli effetti. È altresì vero che la nostra vita non è necessariamente predeterminata da questo status di cose, poiché il karma si può cambiare. Come? Agendo su un piano spirituale, proprio per smettere di accumulare karma e purificare quello già presente accumulato in passato. L'approfondimento1 di queste tematiche esula dallo scopo di questo testo, ma l'introduzione di un concetto così importante per la Tradizione cui si ispira la nostra Scuola di Counseling è fondamentale per comprendere quale sia la visione dell'essere umano anche all'interno di una relazione d'aiuto.
È bene fin da ora precisare come sebbene sia auspicabile per il counselor acquisire tali principi, quali substrati teorici e pratici per poter avere una visione del cliente a 360°, questi non debbano essere necessariamente enunciati o impartiti al cliente, specie se esulano dal suo campo di conoscenza ed interesse. La visione bhaktivedantica non è elitaria, al contrario, per le sue connotazioni universali e applicazioni trasversali diviene un patrimonio da dosare ed esprimere più o meno esplicitamente secondo tempo, luogo e circostanza e che però funge da pilastro interno per il counselor che potrà prendere coscienza del cliente come soggetto bio-psico-sprituale, al di là del ruolo che in quel momento riveste.
Il livello di coscienza del counselor potrà inoltre avere benefici effetti a livello sottile sul cliente, che si sentirà accolto in tutta la sua totalità e che se in più riuscirà a comprendere, sull'onda dei principi prima descritti, di essere lui stesso l'autore del proprio destino (senza necessariamente parlare di karma), potrà in breve tempo ampliare il proprio punto di vista di partenza e compiere significativi passi in avanti nel proprio percorso evolutivo.
Il counselor dovrà quindi saper riconoscere il proprio interlocutore, essere in grado di identificare le sue necessità e il suo livello di comprensione, agendo e rapportandosi con lui o lei in maniera personale, non preconfezionata e generalizzata.
Chi si rivolge al counselor necessita di assistenza, di una consulenza, di conforto, di un punto di vista esterno, ma la relazione di counseling non è semplice conversazione, non è né un rapporto alla pari, né una cattedra dalla quale impartire insegnamenti o sfoderare slogan. Il counseling è piuttosto il contrario, in quanto si basa sul dare ad ogni individuo quel che proprio a lui serve.
Per farlo occorre però che il counselor si sintonizzi esattamente con la persona che ha di fronte e si ponga inizialmente in totale accoglienza e ascolto.
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