IL TABU’ DELLA SOFFERENZA. Riconoscere e apprezzare il linguaggio e le funzioni del dolore

Inviato da Nuccio Salis

 dolore

Conosciamo tutti il vecchio motto “di necessità virtù”, che ci suggerisce come spesso, talune condizioni avverse e ostacolanti, ci obblighino a sviluppare strategie di adattamento in grado di fronteggiarle. La difficoltà aguzza l’ingegno, sostiene un altro diffuso detto popolare, ancora una volta a sottolineare come siano proprio certe situazioni sfavorevoli a costringerci ad attivare delle efficaci contromisure per rispondere in modo lecito, adeguato e congruente coi nostri valori e le nostre possibilità, ai problemi generati lungo il percorso della nostra esistenza. Dunque, un qualunque individuo che si trovi in uno stato per il quale ha o avverte bisogno di supporto, è naturalmente avulso da un orizzonte di problematicità di non facile gestione. E non vi è problema che non implichi un qualche livello di sofferenza.

 

La sofferenza, condizione e sentimento entrato dentro il baratro delle cose da dimenticare, è un fenomeno vissuto sempre più come fattore disturbante, alla pari di un neo o un foruncolo da estirpare o una ruga da ripianare. Di certo è un evento increscioso, e il peso psicologico che ne consegue può avere un carattere insopportabile, e il vissuto che ne deriva potrebbe perfino avere la forza di spingerci dentro un tunnel di anedonia e immobilismo psichico.

La sofferenza, affrontata oggi più che mai alla pari di un escrescenza ammalata, è perlopiù affrontata secondo il modello curativo di tipo medico, e pertanto la si vorrebbe semplicemente rimuovere quasi chirurgicamente, dimenticarla e seppellirla nell’oblio, poiché considerata un mero elemento molesto che si frappone fra la persona ed i suoi obiettivi e programmi quotidiani. Così, come fosse capitata solo per caso, essa dovrà disciogliersi senza recare alcuna pena, e far riaprire al soggetto la via verso la realizzazione di se. In pratica, non ci si pone il problema del valore vitale della sofferenza, e nemmeno la si riesce a guardare come specchio e risultante di un modello mentale e comportamentale che l’ha nutrita e permesso di agire. Comprendere il motivo della comparsa di un evento che induce sofferenza, obbligherebbe infatti ciascuno di noi a decodificare il linguaggio del dolore, a comprendere la profondità e il senso celati nel male di vivere, a contattare quel paradossale richiamo poetico all’esaltazione della vita, nascosto nel disgusto nichilista e nella nausea sartriana che si presentano all’apparenza come impulsi di morte e di svuotamento psichico. Tali aspetti chiamano in causa sofisticate capacità cognitive, desiderio di arricchire la visione del Sé senza rifuggire al terrore dell’incontro con se stessi. La sofferenza, molto spesso, è proprio un grido di soccorso che reclama autenticità, che ci sollecita ad un gioco a carte scoperte, in cui non si può mentire di essere ciò che non si è; oppure ci volge lo sguardo verso quegli elementi ignoti celati negli anfratti del Sé, perché vorrebbe indurci a ricercare, scoprire, conoscere, ovvero a soddisfare tutti quegli impulsi all’apprendimento messi a tacere da una cultura tecnocrate e materialista, che oggigiorno produce solo mediocrità e paura di vivere.

Credo che si abbia il diritto di pensare che il gusto del vivere contempli anche l’eventuale presenza della sofferenza. Se così non è, allora hanno ragione coloro che sostengono che bisognerebbe vivere molto a lungo, senza vecchiaia e senza malattie, e che soltanto l’allungamento temporale, la conservazione e la tenuta del vigore fisico e fisiologico, conferirebbero senso alla linea della vita. Costoro sono fra quelli che accetterebbero a qualunque costo la pillolina del vivere a lungo, magari senza avere progetti, idee, obiettivi e valori edificanti, ovvero vivere “come morti”, in cui ciò che conta è soltanto strappare più calendari possibili e vantarsi con gli amici. Se l’aspetto quantitativo e del benessere a tutti i costi sono le uniche cose che contano, allora deve anche essere vero che per non avvizzire la pelle dalla motilità espressiva dei muscoli e della pelle, bisogna anzitutto evitare di sorridere!

Forse, la verità sta nel prendere atto che non esiste una cultura del comprendere la sofferenza e convivere con la sua natura. L’impegno a livello etico e riflessivo che ne comporta, sembra ormai proprio andare oltre le capacità comuni, sempre più indirizzate verso il rifiuto della conoscenza di sé e della vita, anche mediante la sofferenza. La conseguenza più spiacevole è che la sofferenza, continuando comunque ad effettuare il compito per cui è progettata, se non affrontata in senso umanistico, si ripresenta. Esattamente come il funzionamento del Copione berniano, quell’anelito di vita non soddisfatto, continuerà a recalcitrare fino a che non troverà ospitalità, e fino a che non si accetterà di dover stare a sentire che cosa ha da comunicarci. Ammetto che parlare della sofferenza come una voce amica, potrebbe essere inteso alla pari di un sofismo esagerato ed impopolare, pur tuttavia è questa la funzione precisa della sofferenza. Non esiste campanello di allarme più valido e affidabile della sofferenza. Essa segnala un intoppo, una discrepanza, un punto da affrontare, uno schema di vita da revisionare e modificare. D’accordo, sceglie di farlo con un modo decisamente brusco, ma utile proprio per dare quella strigliata necessaria per destarci e rimetterci nel cammino perduto. Movimenti autoreferenziali come ritiro, depressione, senso estenuante di vuoto e di disfatta, sono comprensibili e quasi del tutto automatici; ma essi non sono la sofferenza, sono invece i meccanismi attraverso cui la vita stessa vuole avvertirci sull’importanza inderogabile di recuperare la nostra missione e il nostro percorso. E giusto per assicurarsi che lo avvertiamo, ci invia un feedback violento, a segnalare l’importanza di concentrarci sul problema, in quanto esso parla di noi, delle rigidità che abbiamo cronicizzato e degli errori sui quali perseveriamo.

Non c’è allora, nella vita, di fronte all’evidente ed urgente necessità di cambiamento, insegnante e maestra più impeccabile della sofferenza. Essa non può sbagliare, perché conosce molto bene noi e il senso stesso della missione che abbiamo scelto. Quando si focalizza e si accentra su un determinato avvenimento, la sua presenza non è casuale, ma un incitamento alla rinascita, un invito pressante all’abbandonare la vecchia pelle ed a vestirsi di novità, riscoprendo la propria completezza. Senza una tale rivalutazione del valore della sofferenza, essa sarà costretta a ripresentarsi ed a reiterare le sue dinamiche, visto che spesso, in una vita vuota e caduta nel supplizio dell’abitudine e della routine, la sofferenza è proprio l’unico spasmo di vita manifesto.

Ci resta dunque l’obbligo di guardare all’esperienza del dolore esistenziale, come una dinamica con cui generare un piano costruttivo di mediazione, per imparare a comunicare ed interloquire con la sofferenza, ascoltare ciò che vuole dirci ed abbandonarci alla sua richiesta, perché le sue richieste coincidono coi nostri bisogni. Interpretarla correttamente può significare avvalorarsi di una nuova prospettiva di vita, imparando a cogliere le occasioni di dolore come proposito di crescita e occasione di riscatto.

Tale sfida è insita anche nello stesso concetto di “crisi”, attualmente espressione molto in voga, e ridicolizzata da concetti materialisti che la collocano esclusivamente a fattori di ordine finanziario.

Questo ci fa comprendere come sia più che mai impellente promuovere un’educazione dell’intelligenza emotiva, in grado di rivolgere uno sguardo aperto, curioso e disincantato ai motti dell’anima, traendone i più preziosi suggerimenti per vincere il disfattismo rinunciatario e riprogrammarsi nell’azione. Abbiamo bisogno di nuove coordinate educative ed esistenziali che ci rendano capaci di accogliere le istanze del dolore, e di intravederne l’arricchente motivo esperienziale, per evitare di dare allo stesso il nostro nome e cognome, ma riconoscerlo utilizzandolo in modo funzionale.

 Una gestione appropriata di questa dinamica può aprirci ad una visione aperta tale da farci pianificare iniziative davvero costruttive, a concepire che quando un’esperienza volge al tramonto, è perché deve sorgere una nuova alba.

È curioso come la sofferenza, in forza della sua mortido, espressione di principio di morte, sia invece una spinta verso una nuova vita.

In sintesi, come ci ricorda Lao-Tze e la filosofia taoista: “Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il maestro la chiama farfalla”.

Potrebbero interessarti ...