Vorrei condividere con voi la riflessione di Alex, padre di una creatura bellissima e con una prestigiosa carriera in corso.
“Non siamo stati abituati all’idea di imperfezione”, non siamo preparati a fare i conti con quella entità sconosciuta e imprevedibile che è la vita. A volte crudele, faticosa, poco rispettosa delle nostre migliori e idealistiche aspettative. Siamo costantemente orientati a credere che se seguiremo certe regole (familiari, sociali, professionali), se ci identificheremo nei modelli “corretti” tutto magicamente si incastrerà davanti ai nostri occhi e ce la faremo. Il fallimento non è lontanamente considerato. Non può accadere. Significa che dovremmo tirare una riga rossa e cancellare tutto, perché abbiamo sbagliato. Siamo sbagliati. Ma c’è chi fa i conti con l’errore, come Alex. In quanti, ci chiediamo, hanno il coraggio di accettarlo, sospendere il giudizio e dargli un nome? È possibile costruire ruoli e regole attorno al fallimento? È possibile scardinare le regole comuni e considerarlo, guardandolo da prospettive nuove? E se si potesse trasformarlo in un alleato?
“Credere nell’imperfezione della vita non è cinismo”, puntualizza Alex, “è una semplice considerazione che nasce dalla osservazione equilibrata della realtà. La paternità è una esperienza sì meravigliosa, ma anche molto faticosa” aggiunge.
Con questa premessa non voglio demolire l’impalcatura di chi considera la propria vita perfetta, né tantomeno promuovere la filosofia del bicchiere mezzo vuoto. Vi propongo solo di indossare per qualche minuto un differente paio di occhiali per vedere ciò che a volte resta sullo sfondo.
Per convincervi, e convincermi, che l’imperfezione della vita “serva” a qualcosa rifletto sui suoi effetti nella vita famigliare di tre amici. E qui entrano in gioco altre due testimonianze. Martina, madre di una meravigliosa bambina, brillante carriera con un ruolo di prestigio presso una importante banca internazionale e Benedetta, madre di tre figli e tata di professione.
“Cosa vi consente di “sopravvivere” tra le difficoltà della maternità, della vita di coppia, del lavoro e i loro delicati intrecci?”, e la parola “sopravvivenza” mi viene indicata da loro come quella più azzeccata. Il primo riscontro che mi arriva è sull’idea di maternità: Benedetta la vive come qualcosa di assolutamente “perfetto”, l’anello mancante nella realizzazione completa di una donna. Martina la vede come l’occasione che ha risvegliato la “wonder woman” in lei che, attraverso la maternità, ha rivelato una forza “sovrannaturale”: d’animo, fisica, una nuova fibra nel gestire le imperfezioni e difficoltà della vita.
Anche la vita professionale gioca un ruolo fondamentale nell’impacchettare la vita nella sua imperfezione. Benedetta, impegnata in un difficile cammino lavorativo, che l’ha portata lontano dalla famiglia, ha riscoperto un marito nuovo, più presente che mai con i tre figli, disponibile e capace nel fare le sue veci nel periodo di assenza. “Non montava nemmeno le lampadine prima! ed ora è lui a fare tutto in casa” aggiunge compiaciuta Benedetta. Certo, il cambiamento è stato duro, ma oggi la ricompensa è un rinnovato senso di coppia e di famiglia.
“Solo le relazioni più forti sopravvivono”, spiega Martina riferendosi alla sua vita sociale e di coppia. Sembra avvenire una sorta di selezione naturale quando una donna si trova a dover gestire il ruolo di madre, di moglie e di donna in carriera. Ne emerge una nuova rete sociale attorno a sé, in cui la parola d’ordine è complicità, comprensione, alleanza, amore.
E che dire delle numerose e difficili aspettative sociali a cui è esposta una donna – devi essere una brava madre, una donna sensuale e attenta, non puoi commettere errori sul lavoro pena il rischio di perdere la faccia? Martina e Benedetta sono concordi nel condividere un mantra come strumento di supporto davanti alle critiche: “dentro da un orecchio e fuori dall’altro !”.
È in questa beffa che trovo il germe di una nuova consapevolezza: è la lampante, ironica, saggia accettazione della clamorosa imperfezione delle nostre vite! È inutile dibattersi nel tentativo illusorio di far andare tutto come ci aspettiamo che dovrebbe andare. Nel mondo della “realtà”, come scriveva Woody Allen nel film Whatever works, …“basta che funzioni”. E fintantoché in una donna emerga un senso nuovo, più allargato di se stessa, della propria coppia e famiglia, si scopra invincibile e si spogli del superfluo per far emergere l’essenziale dalla propria vita e dai propri rapporti… vi pare forse che non funzioni ? Vi sembra che queste donne si siano passivamente arrese alla imperfezione? A me pare, piuttosto, abbiano fatto pace con la loro inadeguatezza e con l’idea di perfezione, ma ciò non toglie in loro la fiducia in se stesse e la forza entusiasta di costruire una vita ricca di gioia e soddisfazione.
Alla luce di questi racconti, mi chiedo come guarderemo all’imperfezione e all’errore. Sono ancora un tabù? Sono ancora così tragicamente inutili o la iniziale provocazione di Alex comincia a svelare un senso ? Forse gli occhiali nuovi, indossati pochi minuti fa, ci permettono di cercare un nome diverso con cui connotare Signora Imperfezione? Personalmente, vedo Benedetta e Martina come due portavoci di una accettazione consapevole e serena di se stesse e della quotidianità. Violentemente coscienti dei limiti propri e della vita sanno anche gestire tale imperfezione con allegria e savoir faire. Non osservano l’errore, ma il senso che porta. La premessa è quella della sopravvivenza, dell’utilità, per cui non vedono più il difetto come un ostacolo, ma come qualcosa che si può gestire, attorno al quale è necessario costruire nuove regole e nuove mappe. E se accettassimo l’idea che regole e metodo costruiscono senso, identità e valore attorno all’oggetto osservato, che ne sarebbe dei nostri temuti limiti? Una cosa è certa: dovremmo fare i conti con noi stessi, farci domande nuove, trasformare l’energia che investiamo per lamentarci in una strategia per affinare gli strumenti a nostra disposizione per interfacciarci con la realtà. Sarebbe faticoso. Ma …. se tutto ciò funzionasse?
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