PRATICHE FILOSOFICHE - RIVISTA SICOF N. 7/2011

Inviato da Sara Zanon

 

Progetto di formazione e pratiche filosofiche realizzato con i dipendenti comunali - di Sara Zanon


Quella del “filosofo” in azienda, o come nel caso specifico in Comune, è una proposta che ha ormai una storia di qualche decennio e le prove che si vanno facendo in vari parti del mondo sono più che promettenti. Si tratta di una proposta che la filosofia ha rivolto, innanzitutto, a se stessa come impegno di riflessione sulla propria identità e sul proprio ruolo. Facendo leva sulla sua originaria vocazione ad essere essenzialmente stile di vita e pratica sociale di dialogo, la filosofia si presenta in azienda con gli strumenti affinati della riflessione distaccata, ma attenta, dell‘interpretazione significativa dell‘esperienza, della costruzione di senso e propone esperienze di pensiero distribuito, mediate dall‘acquisizione di un vocabolario comune e da uno stile di etica del dialogo.   


Seguendo questa prospettiva di riflessione, nella Primavera del 2010 ho realizzato un progetto di formazione e pratiche filosofiche con i dipendenti comunali di Romano d‘Ezzelino (Vi), esperienza che vado di seguito a presentare. “Potere di sé in azienda” è un progetto articolato che ho personalmente ideato, condotto e curato, strutturandolo per moduli separati e disgiunti, ma con il comune obiettivo di potenziare le competenze professionali, riflessive e relazionali dei dipendenti: comunicazione (incontri di formazione con lezione frontale sui temi : della gestione dei conflitti, dell‘arte del delegare, della leadership riflessiva etc.), philosophy for community (pratica di gruppo con sessioni filosofiche sul modello della philosophy for children di M. Lipman), counseling filosofico (colloquio individuale di counseling). Il progetto si era posto l‘obiettivo di fondo di attivare una relazione di continuità tra l‘ambiente di lavoro e quello della vita sostenendo in questa direzione, un impegno di analisi sui nodi dell‘identità e della relazione, favorendo forme di interazione comunicativa che vanno al di là degli stretti bisogni funzionali e operativi.   Il counseling, in particolare, può essere considerato come un'attività professionale che si avvale di mezzi della comunicazione come l‘assertività, l‘ascolto attivo, il linguaggio non verbale per accrescere la consapevolezza di sé e della propria vita e in cui la persona è considerata come parte attiva e al centro del proprio percorso. Il counseling opera nell‘ambito della prevenzione ed è quindi volto a promuovere il benessere del singolo e della comunità - in tal senso considera i momenti complessi dell'esistenza come opportunità di comprensione e trasformazione. Tale professione ha l‘obiettivo di agevolare i soggetti nello scoprire e utilizzare al meglio le risorse personali, per gestire attivamente le condizioni di vita e dirigere il potenziale verso quegli interessi personalmente rilevanti, andando in tal modo a migliorare la qualità della vita in ogni ambito dell'esistenza: nella vita affettiva, nelle relazioni, nel lavoro, in famiglia, in società. L'obiettivo con i dipendenti comunali è consistito, dunque, nel favorire lo sviluppo delle potenzialità individuali, in modo che la figura stessa del counselor diventasse in breve tempo superflua. Caratteristica del counseling è, infatti, la brevità del percorso e la focalizzazione su un obiettivo concreto. Il counselor è la figura professionale che, avendo seguito un corso di studi almeno triennale, ed in possesso pertanto di un diploma, è in grado di favorire il superamento del disagio e promuovere il benessere personale. Il counselor offre accoglienza, ascolto, comprensione ed orientamento utilizzando tecniche di agevolazione, esplorazione, scoperta e mobilitazione delle energie in un clima di rispetto ed accettazione del portato del singolo. Per questo il counselor ha garantito uno spazio protetto e riservato dove i dipendenti hanno potuto vivere un‘esperienza vivace, umana e arricchente.

  L‘interdisciplinarietà del progetto non è consistita nell‘assorbire acriticamente contenuti e concetti appartenenti a differenti discipline quali la comunicazione, il counseling ad indirizzo filosofico e la philosophy for community, ma ha comportato un‘ interdisciplinarietà costruita sul presupposto della dimensione del filosofare, dalla quale è emersa una riflessione corale in merito ai contenuti, agli strumenti operativi, agli obiettivi. Tale riflessione ha permesso ai formatori d‘ individuare le direzioni di senso che hanno qualificato gli eventi presi in considerazione, accertando, ed accettando al contempo, il fatto che potessero esistere, relativamente allo stesso oggetto, altre letture ed interpretazioni.   Il Comune di Romano è un esempio di questo pluralismo, in quanto rappresenta bene la realtà del nord-est del nostro Paese con i pregi e i difetti che in essa sono racchiusi: si situa nella zona collinare alle pendici del monte Grappa, a cinque minuti d‘auto dal centro di Bassano del Grappa, in una posizione ottimale per raggiungere Venezia, Padova, Vicenza, Treviso. Il progetto nel contesto del Comune ha avuto lo specifico obiettivo di coadiuvare l‘ente a valutare i rischi di stress lavoro correlato (secondo la normativa introdotta dal D.lg 78/10) e a potenziare le capacità ed i talenti presenti nelle risorse umane, favorendo nei dipendenti lo sviluppo di abilità d‘interazione comunicativa, secondo un approccio capace d‘intrecciare il piano del sapere (frontali) e quello del fare (pratiche filosofiche). L‘esperienza di formazione è stata articolata come “pratica riflessiva”, secondo un approccio che ha tenuto strettamente intrecciati i piani del sapere e del fare. Quello che sosteneva un filosofo come Giambattista Vico agli inizi dell‘ 700 oggi viene ribadito da più parti: si conosce pienamente solo quello che si fa e l‘ideale del professionista riflessivo orienta molti programmi di formazione professionale negli USA.   Partendo da queste premesse, il presente articolo intende descrivere l‘esperienza maturata, al fine di condividerne non solo l‘oggetto d‘indagine (lo sviluppo di competenze riflessive, professionali, relazionali), ma anche lo specifico metodo di ricerca. Una ricerca fenomenologica che non ha trascurato l‘imperativo dell‘ .andare alle cose stesse., al fine di cogliere la loro datità originale. Un fare ricerca sul campo che ha considerato l‘evento formativo, come un fenomeno complesso e non comprimibile in dispositivi epistemici, i quali tendono a disperdere molte delle informazioni che non sono computabili dentro metodiche proprie del pensiero calcolante. Tenendo presenti queste considerazioni, il proposito che anima questo lavoro è quello di compiere una riflessione sul rapporto tra le pratiche filosofiche e la vita di ciascuno. Un legame che potrebbe essere realmente fecondo, se noi, in qualità di operatori del filosofare, riuscissimo a proporre un‘analisi efficace e al contempo capace di cogliere le interconnessioni esistenti tra i diversi fattori che costituiscono la realtà dell‘uomo. Una riflessione che non fosse solamente una mera sequenza dei fenomeni propri dell‘uomo, bensì, assumendo come criterio dell‘agire l‘esperienza, il pensiero ed i percorsi deweyani, venisse intesa come:  una “conseguenza” d’idee ordinate in cui le parti successive nascono l’una dall’altra e si sostengono reciprocamente.   L‘attuale quadro storico-culturale, con il quale ogni giorno siamo chiamati a confrontarci, è caratterizzato da un‘instabilità che per sua natura è incompatibile con una tale concezione d‘ordine. Una cornice d‘insieme che non agevola il difficile compito di guardare sé e il mondo secondo criteri quali: la riflessività, la consapevolezza filosofica, l‘abilità d‘ascolto, la cooperazione, il turn taking. Nel valutare questi indicatori mi sono servita dello strumento dell‘intervista sequenziale, .intensive. (Charmaz, 2006) più che singole (one- shot interview). L‘intervista è stata proposta ai corsisti come una conversazione finalizzata allo scopo d‘esplorare un certo tema, al fine di far emergere il modo attraverso cui ciascuno dava senso non solo al corso, ma anche alla propria esistenza. Le interviste non sono state strumenti per raccogliere fatti, ma hanno avuto il merito di generare interpretazioni d‘esperienze e collocare le affermazioni nel contesto che le aveva generate.   Le domande proposte ai corsisti sono state le seguenti: quali motivazioni mi hanno portato a partecipare a questo gruppo? Cosa mi aspettavo da questi incontri? Ho qualche perplessità rispetto a quanto mi viene proposto in questo gruppo di formazione? C‘è qualcosa che non comprendo o rispetto a cui sono contrariato/a? Ho vissuto dei momenti di disagio? C'è qualcosa per me di significativo emerso durante il percorso? Mi sono sentito/a accolto/a dalle facilitatrici ?   Lo scopo di questo percorso è stato quello di stimolare la riflessione dei corsisti, pertanto, i dati non sono stati raccolti, ma possono dirsi . prodotti . dei significati che i soggetti hanno attribuito a quei fatti. In particolare ho cercato di far emergere i significati taciti (tacit meanings) attribuiti a fatti, eventi, relazioni, di cui i soggetti stessi non erano consapevoli, ma che hanno guidato le loro azioni: ad esempio il cercare il setting circolare nel conversare, anche nei momenti di pausa rispetto ai lavori del corso. Inoltre ho potuto constatare come la relazione interpersonale tra formatori e partecipanti risultasse fondamentale per la buona riuscita del progetto. Questo non solo per ragioni etiche, ma anche per un indirizzo metodologico coerente: in quanto parte del contesto che mi sono trovata ad osservare, ho assunto il mio punto di vista come dato d‘analisi, pur cercando di distinguere i dati che sono stati prodotti dai fatti osservati e dalle mie personali rappresentazioni, percezioni e giudizi.   Qual è il paradigma per le pratiche filosofiche nel progetto “potere di sé in azienda”?   Viviamo in uno scenario di mercato caratterizzato da eventi rapidi ed imprevedibili che si ripercuotono in modo drammatico sugli assetti relazionali, anche in ambito aziendale e pubblico. Nell‘ambiente della comunicazione da .villaggio globale. in cui ci troviamo, anche dinamiche intersoggettive consolidate da tradizioni, più o meno di lunga data, vengono sfidate e messe in discussione. Viene così avvertita un‘esigenza condivisa di ripensare i modelli di riferimento, si  sente l‘urgenza di riflettere per ristrutturare i paradigmi sui quali fondare l‘esistenza privata e la vita pubblica.   Ogni riflessione, ed in particolare quella sull‘identità privata e la vita professionale -in quanto processo d‘acquisizione in continuo divenire-dovrebbe avvenire proprio dentro la cornice di un paradigma (Kuhn, 1969). Pur essendo un oggetto di difficile definizione, un paradigma si può intendere essere costituito da un insieme di assunzioni o premesse che “guidano l‘azione epistemica”.   Tali presupposti non sono verificabili empiricamente, così come nessuno dei presupposti di cui si costituisce un paradigma può essere accettato sulla base di una logica incontestabile o di un evidenza indiscutibile: semplicemente si dovrebbe optare per quello che alla luce della rielaborazione teoretica della nostra esperienza ci sembra più adeguato.   Nel procedere in questa direzione finalizzata alla ricerca del paradigma del “potere di sé in azienda”, ho cercato delle categorie interpretative quali la riflessività, la consapevolezza filosofica, l‘abilità d‘ascolto, il turn taking che non fossero eterodosse rispetto ai dati, ma che fossero costruite a partire da essi: costruire categorie analitiche a partire dai dati, significa, infatti, rispettare il fenomeno e le indicazioni che da esso provengono. Il verbo costruire rimanda necessariamente al desiderio di predisporre linee d‘intervento che modifichino la realtà esistente al fine di apportare quelli che si ritengono potenziali e possibili miglioramenti.   Il riconoscimento del potenziale arricchimento sul piano umano e lavorativo ha comportato, con l‘andare degli incontri, l‘assunzione di atteggiamenti e comportamenti che non si sono limitati agli aspetti riferibili alla coscienza cenestetica, né alle mansioni proprie del contratto di lavoro e perciò rassicuranti, ma si sono legati indissolubilmente all‘altro aspetto del problema: l‘essere riconosciuti all‘interno del contesto lavorativo. Un‘identità personale e/o professionale, infatti, .funziona. per la persona alla quale si riferisce quando l‘immagine che il soggetto ha di sé corrisponde sufficientemente a quella del contesto d‘appartenenza.   Quella stessa identità può crescere e consolidarsi attraverso il commercio con il mondo, a tal proposito scrive il filosofo Maurice Merleau Ponty:”c’è metafisica a partire dal momento in cui, cessando di vivere nell’evidenza dell’oggetto, scorgiamo indissolubilmente la soggettività radicale di tutta la nostra esperienza e il suo valore di verità”.   Il soggetto percepiente non è più in tal caso un osservatore distaccato, ma è direttamente implicato con la realtà percepita in una relazione inscindibile di scambio. Partendo da questo commercio tra io e mondo il fare ed “essere nel gruppo” è avvenuto nel reciproco confronto d‘opinioni sulle grandi questioni della vita (morte, lavoro, amore, amicizia, politica), nell‘apprendimento di un ascolto attivo all‘interno di un contesto protetto, nella co-costruzione di un flusso di pensiero, nell‘accordo sinallagmatico e dialogico d‘idee e valori. L‘imparare ad imparare .giocando. con immagini, colori, suoni che diventano il testo-pretesto di un lavoro di gruppo può attivare la collaborazione con il vicino di scrivania che nella pratica filosofica siede davanti senza l‘ostacolo del banco - vicino che nella sessione successiva potrebbe diventare il vigile urbano che ha tolto la divisa d‘ordinanza, ma mantiene i gradi sulla maglia o il geometra dell‘ufficio urbanistico che vuole capire come rapportarsi al cittadino, ovvero la bibliotecaria che legge ed analizza a voce alta un estratto di testo narrativo con una metodologia che esula dalle sue competenze ordinarie - in una dimensione comunitaria che diventa possibilità d‘accordo con gli altri e opportunità di negoziare il modo di dare per scontate e condivise alcune modalità della rappresentazione e del riconoscimento del sé, anche in ambito professionale.   Alla luce di queste considerazioni la rilevanza di una corretta e soddisfacente, sia per il Comune che per il dipendente, gestione del "capitale umano" è stata la chiave per l'elaborazione e la conduzione di tutto il percorso formativo. Tutto ciò nel tentativo di creare un ambiente professionalmente ricco di motivazioni e rispettoso dei ruoli e delle competenze di ciascuno, anche quando volto ad erogare un servizio all‘utenza. In questa prospettiva di peculiare complessità in cui il Comune è chiamato giornalmente a perseguire i suoi imperativi d‘amministrazione, legalità e fornitura di servizi, il formatore deve essere in grado d‘inserirsi, restituendo una formazione attenta ai problemi relazionali sollevati dall‘ente. Se il Comune, come entità governativa, era ed è un‘ organizzazione complessa e funzionale, allora la figura del formatore doveva essere capace d'intervenire sulla centralità della competenza dei dipendenti, complessivamente intesa come conoscenze (sapere), capacità (saper fare) e comportamenti (saper essere).   La sfida, a mio parere vinta, a Romano d‘Ezzelino, consisteva nello sviluppare lo spirito di squadra, attraverso la condivisione di obiettivi, l'apprendimento esperienziale e la gestione di buone relazioni. Lo spirito di squadra può essere assimilato a quella che nella philosophy for community viene denominata "comunità di ricerca." La “comunità di ricerca” (CdR) è un gruppo che si riconosce come .comunità. ed impara l'importanza e la necessità di condividere l‘esperienza della ricerca in comune anche nella risoluzione di problematiche che richiedono un lavoro di equipe. Lavorare in gruppo è una necessità per tutti coloro che, professionisti o membri di un‘organizzazione, hanno bisogno di relazionarsi con gli altri per conseguire i propri obiettivi. Una necessità in continua crescita, tanto più quanto più la specializzazione e la sofisticazione delle competenze individuali rendono ciascuno capace d‘occuparsi solo di una parte – talvolta minima – dei processi di lavoro cui siamo chiamati a contribuire.   Nello sviluppo che porta un gruppo a diventare CdR la figura del facilitatore riveste un compito fondamentale. Egli accoglie, accompagna e coordina la riflessione filosofica corale, facendosi garante dell'organizzazione e di un setting circolare adeguato. Il facilitatore promuove e sostiene la dimensione dell‘indagine filosofica, guidando il gruppo con la prevalente utilizzazione di domande di puntualizzazione e focalizzazione, invitando a produrre esempi, chiarificazioni, argomentazioni. Egli ha una salda competenza pedagogica e procedurale, nonché una specifica competenza d‘indagine filosofica. Nel corso di una sessione filosofica, ad esempio, si è lavorato su un testo-pretesto che ha portato il gruppo a compiere inquiry sul tema della percezione. Il facilitatore ha rivestito un ruolo fondamentale nel condurre il gruppo ad analizzare in chiave filosofica il rapporto conoscitivo/percettivo tra io e mondo come affrontato nella filosofia di Platone, Cartesio, Leibniz, al fine d‘aiutare il gruppo a ragionare su regole e comportamenti ascrivibili alle personali visioni del mondo. Le persone sono state condotte a riflettere sul concetto d‘intersoggettività e sul valore di un accordo relativo alle regole tra soggetti che percepiscono il mondo. Norme del vivere comune che andrebbero condivise o quanto meno negoziate tra le parti, come avviene a livello metodologico nella philosophy for community. Il gruppo ha sperimentato attraverso la pratica filosofica come la cooperazione agevoli la gestione e la risoluzione dei conflitti, anche sul posto di lavoro. L‘assunzione di questo atteggiamento, così detto “attivante”, nei dipendenti comunali ha favorito la co-costruzione nella personale formazione, sulla base delle caratteristiche individuali e delle interazioni co-partecipate diventando un bagaglio di senso nella vita di ognuno. Le scrivanie non più intese come “monolocali relazionali” dove il lavoratore è mero esecutore di una prestazione, ma riuscendo a spostare la centratura dell‘azione formativa su chi apprende i facilitatori sono riusciti a contribuire allo sviluppo delle competenze dei corsisti motivati. L‘autentica sorgente formativa delle pratiche filosofiche sia come pratica di gruppo (sessioni di philosophy for community) che individuale (colloqui di counseling individuale) non ha riguardato tanto, come viene spesso considerato e dichiarato dai più, l‘esigenza d‘ottenere un coinvolgimento  da parte di chi partecipa a percorsi formativi, quanto piuttosto ha valorizzato la centralità del soggetto che apprende nel complesso processo congiunto d‘esperienza ed apprendimento.   Nel corso dei colloqui individuali di counseling, la centralità del soggetto, secondo l‘assioma rogersiano .dell‘approccio centrato sul cliente., ha distribuito il potere attraverso un processo di empowerment all‘interno del quale è avvenuta la relazione professionale tra counselor e dipendente comunale, il tutto si è svolto presso uno studio privato nel rispetto della privacy e della riservatezza. La dimensione affettiva di cui il counselor si è fatto garante ha favorito, in chi ne ha fatto esperienza diretta, lo sviluppo di competenze riflessive e l‘approccio critico alla propria realtà professionale e privata. Ogni impostazione depositaria di formazione individuale o di gruppo è stata così trasformata in una prospettiva dialogica, problematizzante e di sviluppo della coscienza critica.   L‘apprendimento esperienziale ha, dunque, assunto l‘esperienza ed il dialogo come criterio ordinatore dell‘agire formativo, non il semplice e spesso dispersivo fare, ma il costruire esperienza autentica quale trasformazione personale e sociale dell‘agire. Il soggetto ha imparato attraverso le pratiche filosofiche un nuovo modo di comprendere i propri problemi e conseguentemente problematizzare la realtà e le connessioni da essa derivanti. I dipendenti comunali hanno appreso così il mondo, ma anche la propria interiorità: se stessi, il proprio mondo, le emozioni. L‘emozione non come semplice fatto psichico e interiore, ma come variazione dei rapporti con gli altri e con il mondo leggibile nell‘atteggiamento corporeo: l‘altro, che sia un collega o un utente al quale erogare un servizio, si presenta con evidenza come comportamento al quale il dipendente è chiamato a dare un nome e verso cui avere una reazione congrua.   Tale agire si potrebbe riassumere in un paradigma ontologico della relazione: sei attivo, se sei auto-poietico, sapersi costruire rielaborando all‘interno ciò che nello scambio relazionale vai costruendo. Attivare le persone attraverso le pratiche filosofiche ha significato per noi facilitatori rendere le loro competenze fruibili nella relazione con cittadini e colleghi e pertanto negoziabili e costruibili continuamente nella relazione stessa. L‘essere attivi diventa così un metodo ed un paradigma di vita e non solamente bagaglio del professionista riflessivo. Concludendo ritengo che per i dipendenti comunali il mettersi in gioco in modo cooperativo sia stato piacevole e gratificante emotivamente, perché ha permesso loro di gestire in maniera fluida la complessità del vivere in comune e fuori dell‘ambiente comunale ed acquisire al contempo l‘utilità edonistica del perdere tempo attorno ad un‘idea e ad una riflessione filosofica.   Bibliografia     Berra.L E., (2006), Oltre il senso della vita, Apogeo, Milano Bocchi G., Cerutti M., (1985), La sfida della complessità, Mondadori, Milano, 2007 Boella L., (2006), Sentire l'altro. Conoscere e praticare l'empatia, Raffaello Cortina, Milano Cosentino A.,(2009), Filosofia come pratica sociale, Apogeo, Milano Foucault M., (1984), Le souci de soi, trad.it., La cura di sé, Feltrinelli, Milano, 1985 Galimberti U., (1987), Gli equivoci dell’anima, Mondadori, Milano, 1997 Lahav R., (2004), Comprendere la vita, Apogeo, Milano Mortari L., (2007), Cultura della ricerca e pedagogia. 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