Le scelte che facciamo sono sempre causate da un motivo, e dietro ogni decisione si cela una ragione più o meno profonda, discutibile o plausibile, condizionata e gravata da schemi di lettura legati all’esperienza passata oppure maggiormente proiettata alla crescita e alla trasformazione evolutiva. Qualunque sia la motivazione, e al di la dell’effetto causale che scaturisce, ogni nostra azione pianificata rimane sempre la risultante complessa di un sistema interno che processa stimoli, elabora dati emozionali, filtra e seleziona opzioni operative, pondera il rapporto fra costi e benefici, e quindi sperimenta e agisce in vivo. È tale congiuntura sistematica fra tutti questi fattori a modellare col tempo quell’orientamento personologico e dinamico che chiamiamo atteggiamento.
In genere, l’interpretazione più corretta e verosimile dello stesso, coincide propriamente con l’obiettivo del comprendere il motivo delle scelte altrui, e di mettere in rilievo i tratti salienti che caratterizzano un individuo. Insomma, ricercare e trovare il perché di ogni azione umana, rappresenta in linea di massima l’ambizione di ciascun professionista della consulenza. Pur tenendo conto, al tempo stesso, che il counseling rimane quell’approccio maggiormente interessato a movimentare le risorse attuali del qui ed ora, senza disperdere eccessivamente l’attenzione all’eredità psichica legata al passato personale. In ogni caso, chi si rivolge a un qualunque operatore della relazione di aiuto, si appella quasi sempre alla competenza del consulente, nell’auspicio che questo trovi le risposte che il consultante cerca. Molto spesso, ancora, vi sono clienti che arrivano già forniti di un personale ventaglio di risposte alla stregua di ipotesi da confermare, nel confronto con un professionista a cui viene attribuita autorevolezza ed affidabilità.
Quindi, di fronte a un comportamento, un modo di essere, e perfino di fronte a una vicenda che si ripete, le prime domande che vengono formulate potrebbero essere, rispettivamente: “Perchè fa così?”, “Perché segue quel percorso?”, “Perché non si viene a capo del problema?”
Insomma, il “Perché?” sembra possedere una grande rilevanza in merito all’impegno prioritario del cercare una ragione all’origine dei comportamenti. Anelare a tali risposte, fra l’altro, corrisponde alla natura umana in quanto portatrice di richieste di rassicurazione. Poter attribuire il senso delle cose ad una spiegazione logica e comprensibile, e che possibilmente non destabilizzi le strutture interpretative dell’esistenza, costituisce una delle maggiori istanze dell’individuo, soprattutto se lo intende come soggetto storico secolarizzato.
Il counseling, sotto questo aspetto, sembra muoversi in controtendenza, rispetto ad un’abitudine diffusa sia a livello di costume sociale che di pratica dell’aiuto, soprattutto se di scuola clinica. Il counseling, infatti, a dispetto di una morbosa ricerca retrospettiva del perché, opta per la maggiore a sviluppare e far emergere soprattutto i concetti di motivazione e responsabilità, legati a un percorso di autonoma e matura riprogrammazione di sé. Il focus preferenziale del counseling, quindi, è l’esperienza di ciascun soggetto come risorsa complessiva da investire per un percorso di rinascita e riscatto esistenziale dello stesso.
Ergo, le domande immesse dentro il set della consulenza supportiva, tendono ad avere carattere più deduttivo che induttivo, a sollecitare risposte aperte, a defilarsi dall’atteggiamento investigativo ed incalzante, annoverato, fra l’altro, nella formula della comunicazione non efficace.
Per questa ragione, dunque, si evitano nel processo di alleanza counselor/cliente le domande “Perché?”
La domanda che comincia col “Perché?” richiama il consultante ad una suggestione ripescata dall’esperienza infantile, cioè quell’epoca in cui gli adulti ci domandavano perché e come mai, col proposito di rendere loro una spiegazione a carattere giustificativo. Nella relazione asimmetrica, fra consulente e cliente, la domanda “Perché?” è carica di questa suggestione, ed in qualche modo, il destinatario della consulenza ne riceve un impatto non trascurabile, che impatta su di lui attivando il suo Ego-Sé Bambino in modo da riproporlo nel setting sulla scia del modello relazionale primario, ricalcato esattamente dall’esperienza remota del rapporto con l’adulto. Tale riproduzione metterebbe sotto scacco il soggetto più vulnerabile sotto questo aspetto, sollecitando nello stesso eventuali e più che probabili sensazioni di errore o vissuti di colpa.
Ancora più disfunzionale, per giunta, si rivelerebbe la domanda “Perché non…”, la quale, oltre che replicare arcaici vissuti emotivi legati alle relazioni educative e affettive primarie, scalzerebbe l’iniziativa del soggetto richiedente aiuto, ponendolo in una condizione di inferiorità e passività. Questo gioverebbe infatti soltanto a chi, invece di offrire un aiuto efficace, deprime il soggetto in una abulia priva di reazione, alla quale risponde, di solito, mediante un comportamento verbale di obiezione, immaturo e infecondo, riconoscibile nell’espressione del “Si, ma…”, la quale innesca un rimando danzante alla parvenza interminabile, in quanto complementare, fra soggetto consulente che non gestisce evidentemente la sua tendenza ad annunciare precotte soluzioni, e il ricevente aiuto, che intrappola se stesso e l’altro in una modalità inefficiente e improduttiva, ridondante ed emotivamente spiacevole.
Certo è constatato che i clienti, spesso e volentieri, nonostante abbiano richiesto direttamente aiuto e sostegno, mostrino ambivalenza nel volerla poi rifiutare o quantomeno non voler adattare a un ripristino circa le rispettive coordinate esistenziali.
Il cliente della relazione d’aiuto, in genere, è colui che vuole fare la rivoluzione senza cambiare. Delega soluzioni ma le rifiuta perché una parte di se tende all’autonomia. Bisogna certamente tenere conto di questo, e non è certamente giustapponendo il proprio orizzonte concettuale a quello dell’altro che fluirà una soluzione fattibile. Questa condizione, infatti, ci farebbe rischiare di colludere col mondo esperienziale altrui, e di cercare conferme egocentriche dei nostri costrutti di valore e, nella fattispecie, adoperare le domande “Perché?”, quindi facendo andare in una deriva senza controllo il senso costruttivo del rapporto col cliente.
È vivamente suggerito, dunque, evitare le domande “Perché?”, sostituendole con formulazioni più appropriate che permettono al soggetto in trattamento di esplorare più possibilità e di scegliere da solo i significati, senza out-out che lo pongano in un contesto di soggezione e compiacenza nei confronti di un professionista dell’aiuto.
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