EDUCAZIONE SPECIALE: quando il diversamente abile è superiore

Inviato da Nuccio Salis

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Quando si applicano metodologie e ricerche della pedagogia speciale, ci si rivolge solitamente a soggetti portatori di bisogni che richiedono cure educative centrate sulle specifiche caratteristiche ed esigenze del singolo. Tali aspetti personali sono ricondotti in genere alle aree deficitarie, in seno alle dimensioni dello sviluppo di ciascuno. Gli studi, oggigiorno piuttosto avanzati, permettono di avvalorarsi di un corredo piuttosto esteso in merito alle metodologie osservative, diagnostiche e procedurali di intervento. Tutto questo risulta appaiato ad altrettanti rigorosi modelli di valutazione itinerante, in grado di farci estrapolare e cogliere preziosi feedback sull’esperienza educativa condotta. In ogni caso, i destinatari dell’intervento rimangono quei soggetti verso cui si dirige la propria opera di sostegno educativo in quanto essi risultano avere condizioni ostacolanti, di varia natura, in relazione alle possibilità mediamente concesse alla maggioranza delle persone; in altre parole si sta citando la diversabilità. Con tale espressione si vuole intendere la sottolineatura delle proprietà integre o semi-integre di ciascun soggetto, da far emergere come risorse funzionali per fronteggiare, in modo comunque individualizzato, quei percorsi e quei traguardi formativi dello sviluppo che coincidono, peraltro, col diritto all’apprendimento, all’integrazione e alla cittadinanza.

 

Quasi tutti gli sforzi e le risorse inerenti all’intervento speciale, sono diretti al sostegno verso i soggetti attualmente riconosciuti come diversabili.

Tuttavia lo stesso concetto di diversabilità, dal momento che tende ad evidenziare le componenti funzionali alternative di ciascuno, benché in stato oggettivo di difficoltà di un qualunque tipo, può adagiarsi semanticamente a chiunque, poiché tutti noi possediamo aree forti e meno forti di abilità. Quindi, il termine “diversabilità”, benché inteso quasi prioritariamente come una sorta di vocabolo a uso politicamente corretto, che vuole semplicemente sostituire diciture e nomenclature considerate poco avvaloranti, si ritrova ad includere tutti coloro che esprimono attitudini, preferenze e competenze più evolute in un campo e meno in un altro. Per esempio: se io sono un bravo nuotatore ma non so sciare, fra gli sciatori avrò un deficit di competenza, esattamente come chi, sapendo sciare ma non nuotare avrà nei miei riguardi se dovessimo affrontare insieme la piscina. Sono dunque il contesto e le competenze personali a determinare il livello di difficoltà, come variabile risultante dalla congiunzione fra limite oggettivo (deficit, menomazione) e questo sommato ad eventuali sfavorevoli condizioni ambientali; sommatoria che determina uno svantaggio a forte componente ambientale, meglio nota col termine handicap.

Riflessioni in merito a questi aspetti, di solito, rendono conto di una certa relatività sulle condizioni di svantaggio sociale, personale o culturale.

Il diversabile, dunque, non è da intendere come comunemente ed erroneamente percepito, ovvero come portatore di handicap. Da questa rappresentazione equivoca, invece, scaturiscono piani di intervento educativo che, in buona sostanza, a livello operativo si potrebbero rivelare inefficaci nel rispondere adeguatamente ai bisogni speciali di un individuo, nel caso che la lettura di tali bisogni conservi la tradizionale visione deficitaria, dando luogo ad approcci meramente assistenziali e non attivi. Ed oltre a rappresentare questo rischio, rimarrebbero esclusi da una programmazione formativa “speciale”, tutti coloro che la propria diversabilità la esprimono attraverso l’eccellenza. In altre parole, se da una parte le difficoltà dell’apprendimento sono generalmente dovuti a deficit o disturbi individuali, esiste anche una esigua classe di individui che mostrano aree di funzionalità specifiche altamente evolute al di la della media conosciuta. Sono coloro che ingenuamente vengono soprannominati “geni”, e naturalmente ogni genitore ne ha uno in casa.

Rimanendo in linea concettuale col paradigma relativistico, in merito alla proprietà dell’handicap, il bambino o ragazzo diciamo iperdotato in una qualche forma intellettiva, non maturerebbe un vissuto di piena integrazione e gratificazione espressiva se collocato in un contesto che non ne riconosce il talento e le attitudini. Al contrario, le sue potenzialità comincerebbero a decrescere se inascoltate e non impreziosite, perdendo così l’opportunità di espandere competenze per natura già strutturalmente sviluppate.

il trattamento educativo di un bambino/a o ragazzo/a che manifesta una qualche capacità in modo decisamente prodigioso o fuori del comune, apre infatti scenari pedagogici che provocano dibattiti e discussioni di carattere non poco controverso. Prima di tutto, una subitanea disquisizione potrebbe far riflettere se sia più importante far affrontare al talentuoso percorsi speciali sotto il profilo didattico-formale, o se la prerogativa sia in qualunque caso e senza eccezioni da attribuire alla qualità di vita del soggetto, riparandola dal possibile rischio di vedersi sottrarre importanti spazi vitali di gioco e di spontaneità. Con tutta probabilità, un approccio efficace eviterebbe di appiattirsi su posizioni estreme o addirittura ideologiche. Se da una parte, risulta giusto e verosimile salvaguardare le attitudini peculiari di un bambino/a o ragazzino/a precoce, aiutandolo ad esperire il suo talento per non atrofizzare le sue strutture cognitive, d’altra parte bisogna anche tutelare le dimensioni tipiche della vita infantile, che non possono essere violate e soggiogate nel nome di un talento, seppur altamente specializzato o in grado di stupire.

Un sano programma di crescita educativa, in un caso del genere, dovrebbe prevedere il soddisfacimento di queste due aree di bisogni, riservandole entrambe ad una cura educativa che superi un pericoloso dualismo ideologico e promuova il benessere del soggetto. Intendo dire che un programma educativo rivolto a bambini “speciali”, dovrebbe riuscire a sostenerne sobriamente le rispettive capacità, evitando al tempo stesso di isolarli, e fare a meno di farli sentire superiori inducendoli alla superbia. Le superiori abilità dimostrate da soggetti precoci, dovrebbero infatti essere rivolte e messe a disposizione in modo cooperativo, quindi adattate all’interno di programmi di peer-education, soprattutto se hanno la finalità di migliorare il controllo dei processi comunicativi interpersonali e le capacità prosociali. Da prevenire assolutamente il rischio di abuso delle loro qualità speciali, che consiste nell’usarli come una sorta di fenomeni circensi da esibire, per la gioia di taluni genitori irresponsabili. A favore di questo tema abbiamo anche precise conoscenze in merito, che ci informano per esempio sulla inutilità di avviare insegnamenti prematuri allo scopo di sostenere capacità precoci più o meno percepite come tali. Tale inutilità è dovuta al fatto che viene progressivamente a perdersi la ritenzione mnemonica di dati e conoscenze se inadeguate per la fase evolutiva in corso. In secondo luogo, ed è questo il rischio decisamente più rilevante, tale da costituire un vero e proprio abuso sull’infanzia, consiste nel determinare la vita del bambino sulla base delle sue prestazioni. Ovvero, quando in virtù di un pericoloso adultocentrismo, deleterio e irresponsabile, si disconoscono i bisogni autentici di un bambino, facendo associare allo stesso la percezione del proprio valore in funzione della prestazione esperita. Ciò significa consegnare il bambino a una struttura di personalità estremamente fragile e vulnerabile, intollerante all’errore, facile alla frustrazione e allo scoramento, incapace di contenere e gestire l’esperienza dell’eventuale sbaglio o fallimento. Nevrotico, perfezionista, incapace di perdonarsi e di perdonare, se non anche egocentrico e narcisista, sono tutte caratteristiche che potrebbero delineare un individuo così inautentico e dal vissuto sostanzialmente infelice e indicibilmente sofferente.

Ci sono numerosi casi in letteratura che dimostrano queste tesi. È una questione pedagogica molto più seria di quanto la si possa immaginare. Si tratta, dopotutto, di provvedere ad occuparsi in modo responsabile di bambini super equipaggiati o con una marcia in più. Si è chiamati, quindi, come professionisti che offrono supporto, a condurre la propria opera di aiuto mediante principi di alto spessore e tecniche funzionanti. Tenendo conto, in fin dei conti, che il nostro principale mandato è quello di esaltare alla vita, arricchendola sia in assenza o in presenza anche di eventuali o comprovate attitudini, geniali o precoci che siano.

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