Una persona bulimica è una persona che desidera. Desidera l’alimento per nutrire non il corpo ma per compensare una mancanza. Mancanza d’amore, di considerazione, di autostima. L’atto del vomitare rappresenta la liberazione dall’esaudimento del desiderio, necessario per poter ripetere l’atto compulsivo. Un profondo senso di colpa accompagna la persona bulimica che non riesce a controllare l’atto alimentare. La colpa è figlia della ricerca di perfezione, simbolicamente rappresentata dal corpo anoressico. La bulimica è un’anoressica mancata ed in quanto tale soggiace alle ferree leggi del rigore. Il cedimento al piacere dell’ingurgitare rivela appunto il naufragio del meccanismo di controllo, rigido ed ossessivo, ricercato da queste persone e quindi la precipitazione nel cataclisma dell’imperfezione, dello schifo, della disistima totale. Il tentativo di controllo alimentare, del corpo, rivela il tentativo di costruirsi un’identità, un bisogno di autoaffermazione.
Nella storia personale della persona bulimica troviamo spesso esperienze traumatiche nell’infanzia, fisiche e/o psicologiche. Stili di attaccamento insicuri, frequenti nelle persone affette da disturbi alimentari, denotano un quadro biografico e familiare nel quale il bambino stenta a discriminare i propri bisogni fisiologici, come appunto la fame, dagli stati emotivi. Effettivamente le persone affette da disturbi alimentari sono fondamentalmente alessitimiche: hanno difficoltà di insight e nel riconoscere le proprie emozioni. Apparentemente rimandano freddezza, scarsa empatia. Per questo il trattamento nel counseling è difficile e complesso. Un fallimento terapeutico ripropone il circolo bulimico mostrando l’imperfezione, il senso di colpa. E’ necessario far vomitare, non il cibo, ma le emozioni, i desideri, il bisogno d’amore, la necessità dello sguardo dell’altro che non sia giudicante. E’ necessario liberare la femminilità spesso domata perché esporrebbe all’altrui giudizio. L’utilizzo di farmaci antidepressivi, frequente nella bulimia, è spesso una contraddizione di metodo. Il miglioramento dell’umore, peraltro momentaneo, fa emergere ancor di più la propria inefficacia demandata ad una molecola.
Il counseling con una persona bulimica diventa una sorta di battaglia, nel quale si susseguono avanzamenti e disfatte. Ostinazione, rigidità, negatività, espresse dal bulimico, spingono spesso il counselor all’irritazione, alla colpevolizzazione del paziente e a determinarne l’inguaribilità. La consapevolezza del possibile emergere di tale meccanismo, che trasferisce sul paziente l’incapacità del counselor a gestire adeguatamente la relazione, è condizione prioritaria per poter essere di vero aiuto.
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