Il Cambiamento in un percorso di Counseling con chi ha problemi di dipendenza


alcolistaAl Centro Caritas presso cui ho deciso di  svolgere il mio tirocinio presentando un progetto di collaborazione con gli Alcoolisti Anonimi e la comunità Emmanuel, per offrire sostegno a chi ha problemi di dipendenza ed ai loro familiari, ho incontrato Massimo. Secondo quanto stabilto, l’intervento di Counseling è previsto per agevolare l’inserimento dell’Helpee nei gruppi di auto-aiuto e/o, in affiancamento, per  accompagnarlo nella partecipazione ai gruppi di auto-aiuto per il percorso di recupero.

Quest’uomo di 37 è arrivato al primo incontro più per soddisfare la richiesta dei familiari, preoccupati per l’abuso di alcool cui aveva spesso fatto ricorso, che per reale determinazione personale. Perciò ho deciso di dedicare interamente il primo appuntamento all’ impostazione delle basi di un’alleanza operativa tale da creare innanzitutto una fiducia che consentisse al cliente una sorta di tranquillità capace di indurlo ad ammettere di avere un problema con l’ alcool.

Questa si è rivelata una buona intuizione poiché la prima cosa che l'utente ha ribadito all’inizio del colloquio è  stato il fatto che quella dell'alcolismo era una parentesi aperta e oramai chiusa, sena alcuna incertezza, già da un paio di mesi; a questo proposito c’è però da precisare che quest'affermazione coincide con quanto asserito dai familiari quando, nell’informarsi del servizio proposto dal centro Caritas, mi avevano esposto il problema del fratello come qualcosa che, almeno in apparenza, sembrava che egli stesso era riuscito a lasciarsi alle spalle. In buona sostanza La loro preoccupazione, era che Massimo potesse ricadere nell’abuso di alcool, e, allo stesso tempo, rifiutarsi di proseguire il percorso di aiuto che, in qualche modo, poteva fare da deterrente. 

L'imprinting che ho dato al primo colloquio ha creato quel clima di empatica autenticità che ha indotto il cliente a chiedere un nuovo appuntamento. Infatti, al di là dell’accettazione incondizionata, che certo attiene più al patrimonio delle qualità che un buon counselor deve possedere piuttosto che alle tecniche che le conoscenze acquisite gli mettono a disposizione nell’esercizio della professione, ciò che, a mio parere, ha davvero portato il mio utente a scegliere di voler proseguire il suo percorso è stata la mia decisione di fare ricorso soprattutto alla tecnica rogersiana dell’Ascolto attivo. Gli ho dato tutta l'attenzione possibile senza, però, chiedere chiarimenti quando il racconto si faceva confuso, e soprattutto senza far notare all'utente alcuna contraddizione in quello che stava condividendo con me. Ho scelto di non restituirgli, attraverso il ricorso allariformulazione, tutte le incongruenze che notavo di volta in voltai.

Invece, solo a colloquio finito, ho preferito annotare nella cartella anamnestica del cliente tutte le incoerenze e gli interrogativi che erano venuti a sollevarsi mentre lo ascoltavo. Questo mi avrebbe permesso, durante gli incontri successivi di verificare, oltre alla coerenza, anche la veridicità di quanto da lui stesso espressamente affermato, senza affidare un compito tanto delicato solo alla memoria. Già da tempo Alberto Semi[1] ha ribadito quanto sia utile per l'helper una precisa compilazione, se non addirittura una riscrittura del resoconto dell’incontro. Nel caso di Massimo la stesura precisa e puntuale almeno di un out-line dopo ogni colloquio, si rivela fondamentale non solo per quanto detto finora riguardo alla sincerità, ma anche per consentirmi di riorganizzare il materiale che il cliente espone spesso in maniera caotica. Infatti ritengo che la sua personale problematica comporti, indipendentemente da particolari aspetti caratteriali, una sorta di fisiologica inclinazione alla mancanza di sincerità; cosa che spesso si accompagna ad una fortissima quanto generalizzata diffidenza.

Probabilmente tale dinamica è spiegabile, tra gli altri, col fatto che queste persone, se non sono impegnate in uno specifico percorso di recupero, hanno grosse difficoltà ad ammettere, prima di tutto con se stesse, di avere realmente un problema di dipendenza. Per tutte queste considerazioni la mia priorità è stata quella di creare all’interno del setting un clima di empatia tale da far maturare nel mio cliente la convinzione di potersi fidare fino al punto di riuscire poi a paralare dell’abuso di alcool non solo come qualcosa che si è lasciato completamente alle spalle. A ben vedere già da questi istanti la mia scelta ha avuto risvolti etici. Personalmente, infatti, sono convinta che la capacità entrare in empatia col proprio utente significa operare secondo principi di etica prima ancora che di deontologia. Questo perché, in fin dei conti, agire secondo Etica significa muovere il cambiamento rispettando il tempo interiore che la persona impegnata nel processo mantiene di colloquio in colloquio. Durante il secondo incontro Massimo ha abbandonato l’atteggiamento di chi voleva assolutamente convincermi che, tutto sommato, le cose andavano bene. 

E’ sempre stato molto loquace, ma questa volta, il suo racconto era meno confuso poiché, nel narrare, non saltava da una cosa all’altra. Inoltre il cliente, a differenza di quanto verificatosi durante il colloquio precedente, iniziava pian piano a soffermarsi sul suo stato emotivo rispetto ai fatti di cui parlava e non a farne l’elencazione per giustificare in qualche in qualche modo l’abuso di alcool. Questo atteggiamento metteva, inoltre in risalto il fatto che stava incominciando lentamente a fare focusing sulle proprie emozioni. Ciò mi ha permesso di ricorrere all’utilizzo della riformulazione allo scopo di verificare sia la congruenza col contenuto dell’incontro precedente sia il suo reale livello di consapevolezza. Certo il diverso modo di procedere del mio cliente non mi aveva impedito di rilevare ancora delle incoerenze rispetto a quanto detto in precedenza. Ma, nonostante ciò, tale passaggio resta comunque fondamentale per costruire e fortificare la motivazione al cambiamento e, in relazione ad essa, procedere alla definizione del contratto.

Ed infatti, al terzo incontro Massimo è arrivato a formulare chiaramente la richiesta di lavorare sulla gestione della rabbia. Il terzo colloquio ha segnato sicuramente un cambiamento significativo nella relazione col cliente.  Nel corso dell'incontro Massimo si è aperto in maniera significativa, arrivando finanche ad identificare un preciso nesso di causalità tra le emozioni che alcune vicende personali gli avevano provocato e l’inizio del suo percorso di dipendenza dall’alcool. Nell’entrare in contatto diretto col suo sentire ha abbassato la soglia dell’attenzione generalmente riservata ai dettagli del vicende raccontate. Queste palesi incongruenze hanno confermato la mia valutazione iniziale circa la attitudine alla sincerità del mio utente . Fin dall'andamento del primo appuntamento, infatti, avevo ravvisato la necessità di proporre all’utente,una volta costruita una buona alleanza operativa e conquistata la sua fiducia, un colloquio col responsabile del gruppo degli alcoolisti anonimi. 

Per la verità, finora, Massimo non si è mai presentato al centro in condizioni tali da far supporre che non abbia smesso di bere, ma mi riesce oltremodo difficile credere che una persona che ha avuto questo problema per tre anni e che, a suo dire, ha smesso di bere nemmeno da due mesi, non abbia mai la tentazione o la voglia di riprendere. Con questa personale convinzione sto proseguendo il percorso di Counseling. Spesso Massimo riferisce dei cambiamenti che gli altri gli attribuiscono da quando ha iniziato a frequentare il centro e lui stesso dice di accorgersi di reagire in maniera differente, rispetto al passato, alle situazioni di stress. Nello stesso tempo ha incominciato a parlare del problema che lo ha portato da me in maniera più profonda senza liquidarla sbrigativamente come cosa del passato. Raggiungere il grado di fiducia necessario perché l’utente riesca a parlare di quello che è, in questo momento, il suo effettivo rapporto con l’alcool, o con la difficoltà per non caderci nuovamente è un processo delicato. Il ricorrere al dialogo socratico ed alle riformulazioni per agevolare l’utente nel suo processo di consapevolizzazione attraverso il progressivo e graduale rendersi conto delle proprie contraddizioni si sta rivelando una scelta funzionale ad una solida costruzione della motivazione al cambiamento.

Massimo, infatti, è arrivato al primo colloquio confuso; per nulla auto centrato, preoccupato soprattutto di dirmi che non aveva più alcun problema. Nessun accenno al minimo progetto di personale trasformazione. Nel corso degli incontri successivi l’utente ha portato nel setting contenuti molto più profondi; ha preso a parlare delle sue paure che, iniziate quando ha incominciato ad abusare dell'alcool, continuano ancora adesso a condizionargli la vita. Nel fare questo diceva di rendersi conto ribadiva di come stava pian pian acquisendo maggiore fiducia nella relazione poiché senza programmarlo si trovava a raccontare cose di cui non parlava con nessuno. Mi spiegava poi che quello che lo tratteneva dal bere era un forte senso di vergogna per se stesso e per le persone che per lui erano un riferimento. Il progressivo auto svelamento fatto dal cliente aveva anche svelato più chiaramente non solo la struttura del sistema familiare in cui era inserito nel momento in cui si manifestava la sua dipendenza.

Diverse delle cose che erano venute fuori nel colloquio rimandavano ad un contesto in cui il rapporto disinvolto rapporto che i componenti maschili della famiglia, in molte occasioni, avevano col bere era quasi una prassi consolidata. Di fronte alla conoscenza di tutti questi nuovi elementi, proposi al mio utente di incontrare separatamente il responsabile dell'associazione degli Alcoolisti Anonimi e di avere prima con lui e successivamente col gruppo degli incontri a cadenza bisettimanale che, senza interferire in alcun modo col nostro percorso, avrebbero sicuramente potuto aiutarlo restare fuori dalla dipendenza. Il cliente accettò tranquillamente la mia nuova ipotesi di lavoro e, quindici giorni dopo, ebbe il primo colloquio con la persona cui lo avevo indirizzato. 

E’ superfluo dire che i nostri incontri stanno ancora proseguendo. Per quanto finora riportato, dal mio punto di vista, in questo caso agire in maniera etica ha significato tenere nel giusto conto tutte le difficoltà, anche quelle di porsi autenticamente in relazione, del cliente; in primo luogo, quindi, le difficoltà di ordine emotivo e psicologico ed, in secondo luogo quelle legate al sistema in cui è inserito. Tenere conto di queste variabili implica, necessariamente, momento per momento, fare la scelta operativa più adeguata a garantire al cliente l’unico cambiamento realmente sostenibile. Mettere in relazione l’Etica col cambiamento degli utenti significa porre al centro della nostra attenzione l’aspetto soggettivo di una relazione di counseling. Soprattutto con persone che hanno problemi di dipendenza appare chiaro che, nell'ambito di relazione d’aiuto che si pone in affiancamento all’interveto di recupero, non è opportuno né utile attenersi a fixed patterns per agevolare il cliente al cambiamento.

Nel caso specifico se fossi stata più direttiva, facendogli, in pratica, arrivare il messaggio di volerlo controllare come le persone più invadenti della sua vita, o ancora, se avessi rimandato al mio utente, fin dal primo colloquio, ogni incongruenza più o meno evidente non penso che l’alleanza operativa ne avrebbe tratto giovamento; e di conseguenza, l’unico reale risultato sarebbe stato quello di privare Massimo di una possibilità !


[1]Semi A.(1985 ) Tecnica del colloquio; R. Cortina editore

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