Counseling strada per il cambiamento ecocompatibile


eco compatibileLa scelta operativa: scegliere ed attuare l’intervento migliore

Il problema della scelta dell’ intervento più idoneo all’ agevolazione del cliente nel processo di cambiamento  non è meno importante, ai fini della riuscita della relazione d’aiuto, della giusta costruzione dell’ alleanza operativa. Questa decisione, a mio parere, ha a che fare non solo con la tipologia  caratteriale e di personalità dell’ utente ma anche con l’ effettiva capacità che egli/ella mostra di saper attuare e gestire il cambiamento in se stesso. Ciò implica, inevitabilmente, da parte del counselor la necessità di riservare particolare attenzione al livello  di consapevolezza mostrata da chi decide di iniziare un percorso di counseling. Può accadere, infatti, che una persona affronti quest’esperienza con una generica consapevolezza dimostrando di non aver  ancora considerato specifici obiettivi attraverso l’ottenimento dei quali si concretizza il cambiamento. Meno frequentemente capita che il cliente, fin dal principio, sappia che il cammino intrapreso, se fatto con successo, porterà  sempre con sé la modificazione degli equilibri del sistema  in cui è inserito.

 

E’ molto più plausibile, infatti, che questa consapevolezza l’ utente la riesca ad acquisire andando avanti nel proprio percorso di riassesment. Ma, qualsiasi sia il livello di consapevolezza mostrato durante gli incontri, è contenuto precipuo delle cosiddette abilità di counseling individuare il modo migliore per impostare una buona metodologia di intervento. La British Association for Counseling nello stabilire diverse possibilità per definire il Counseling come strumento operativo, ha, in concreto, fornito ai counselors le coordinate fondamentali all’ interno delle quali  poter collocare la propria scelta operativa; tali reference points vanno dalla possibilità che l’ helper  ha di mostrare al cliente le opzioni che questi ha a disposizione, accompagnandolo nella scelta, a quella di valutare insieme  le situazioni problematiche per trovare il punto da cui poter partire per attuare il cambiamento.

Qualunque sia la strategia operativa, la B. A. C. stabilisce, senza ombra di dubbio, che il counselor è tenuto, deontologicamente ed eticamente, a lavorare per promuovere l’ autonomia personale dell’ utente. Di certo questo è aspetto oggettivo della deontologia e dell’ etica cui giustamente ogni operatore si deve uniformare; ma , a mio parere,  la capacità di sapere individuare l’ intervento più opportuno , e chiaramente differente per ogni singolo cliente, afferisce al lato soggettivo e, in quanto tale, più delicato  della stessa medaglia. Cosicché il counseling migliore che l’ helper  può offrire al suo utente è quello che si colloca nel punto di equilibrio dei due aspetti, oggettivo e soggettivo,  dell’ Etica.

Partendo da questo dato è  logico concordare con l’ ipotesi di una nuova definizione  di responsabilità imputabile al counselor che non afferisce più esclusivamente all’ agire in se stesso bensì anche almodo in cui l’ helper svolge il suo  intervento secondo quello che Hans Jonas definisce proprio “principio di responsabilità”. Inoltre, personalmente ritengo che nessuno che voglia esercitare questa professione secondo deontologia,  può, astenersi dal fare riferimento, qualsiasi impostazione metodologica persegua, ai principi di psicologia esistenziale. Affermando che l’ esistenzialismo determina nell’ essere umano il suo oggetto, Rollo May pone l’ accento proprio sull’ aspetto dinamico  della questione risalendo finanche all’ etimologia classica del termine che deriverebbe appunto dal termine latino “existere”: letteralmente “venir fuori”.

Tale concetto rimanda molto chiaramente a quello di cambiamento e sicuramente la ratio del counseling umanistico esistenziale è l’attenzione all’ essenza, intesa come  “venir fuori” ed al modo in cui il counselor di questo imprinting può  agevolare il processo dinamico del cliente. Gordon Allport è categorico nell’ attribuire il merito della rielaborazione concettuale all’ intervento della cultura americana risalente a Maslow e Rogers,  preoccupandosi però di prendere le distanze dall’ importanza primaria dell’ approccio motivazionale di Maslow. Personalmente credo che, nell’’ambito esclusivo di una relazione di counseling, l’ individuazione di un buon intervento passi, inevitabilmente, dall’ analisi e dalla verifica della motivazione al cambiamento manifestata dal cliente durante gli incontri.

Solo da qui può partire la costruzione di un’ alleanza operativa tanto solida da poter accompagnare l’ utente nel suo percorso di autonomia consapevole. Alla fine ciò gli consentirà, nella pratica, di funzionare secondo quella che Rogers definì tendenza  attualizzante. C’è poi da aggiungere che, l’ elemento strettamente soggettivistico e caratteriale della pulsione alla ristrutturazione  pone, di fatto, al centro dell’ attenzione il concetto di autenticità. Ad esso deve  rifarsi il counselor non solo, secondo quanto affermato da Rogers nel  Saper essere, ma per la giusta valutazione dell’ intervento. Inoltre, non va dimenticato che, se determinare la modalità di relazione più utile al singolo cliente, vuol dire individuare la metodologia operativa migliore,  solo ed esclusivamente in riferimento alla singola specificità personale, ciò  fa chiaramente presumere che non è possibile definire oggettivamente come migliore un modello teorico di Counseling piuttosto che un altro.

Qualsiasi strada si percorra accanto e insieme al cliente, la natura consustanziale che esse hanno in comune è la riprogrammazione tutto il resto deve essere individuato  in modi e secondo contenuti differenti nel “Qui ed ora” di ognisingolo setting. Per questa convinzione ho raccolto in queste pagine l’ esperienza maturata con   clienti  diversi  per età, sesso, problematica riportata e sistema in cui sono inseriti.              

                                      

L’importanza del primo colloquio

Qualsiasi modello di riferimento  si sia seguito  durante il percorso di formazione,   di certo nessuno ha potuto prescindere dall’ importanza di Carl Rogers nel costruire la propria professionalizzazione. Ora, il punto non è ricordare i cardini fondamentali su cui, per Rogers, si  doveva  strutturare una buona relazione d’ aiuto. Al di là delle consuete teorizzazioni a cui, è fuori dubbio, chiunque decida di svolgere questo lavoro deve fare riferimento, c’ è, a mio avviso, un’ attenzione speciale che  deve essere riservata da ogni buon counselor al primo colloquio.  Generalmente si dice che occorrono almeno tre o quattro incontri perché entrambi i soggetti coinvolti nel rapporto dialogico (  l’ helper e l’ helpee) abbiano la possibilità di verificare la reciproca compatibilità; ma personalmente credo che sia davvero difficile arrivare al quarto incontro se, al di là di empatia, accettazione incondizionata, ascolto attivo e tutto il resto del “ bagaglio” di tools di imprinting rogersiano utilizzabili in ogni colloquio, l’ operatore non si preoccupasse in maniera adeguata del primo incontro della relazione che sta iniziando a costruire insieme al cliente.

In sostanza, se nel comune andamento  del rapporto di counseling  è pensabile, se non addirittura auspicabile, il ricorso ai suddetti “strumenti di lavoro”, in ogni incontro, non va comunque trascurato il fatto che deve, necessariamente esserci, nel suo contenuto  qualcosa che  renda diverso dagli altri il primo colloquio. La deontologia professionale a cui è obbligatoriamente tenuto ogni counselor non può certo essere messa in secondo piano durante gli incontri successivi. Ci sono delle regole! E, come tali, vanno rispettate: al primo come all’ ultimo colloquio! Robert Carkhuff afferma: ”Iniziare è la fase culminante del processo d’ aiuto”;  e prosegue ribadendone il peso nell’ agevolazione del processo di cambiamento dei clienti.  “Iniziare sottolinea  l’ importanza di facilitare gli sforzi che gli helpee compiono per agire in modo da riuscire a raggiungere i loro obiettivi….”! Col pragmatismo che lo ha reso famoso, Carkhuff  collega al concetto dell’ Iniziare a  quello diIniziativa stabilendo  in maniera molto concreta quali fossero gli step adeguati alla promozione dell’ empowerment  personale dell’ utente per metterlo in grado di poter “modificare la sua capacità di funzionamento.”

A questo proposito egli si esprime in termini di “comprensione personalizzata”  per cogliere l’ attitudine individuale  di auto-percezione di ogni cliente  ponendo l’ accento sulla abilità del helper di agevolare tale inclinazione. Molto lontano dall’ idea di accoglienza di  Rogers, riesce comunque a  rielaborare in maniera assolutamente personale lo schema del primo colloquio; offrendocene, di certo, una nuova ipotesi di strutturazione. In qualsiasi modo lo si voglia affrontare, l’ incontro di  avvio di un percorso di counseling rimane la porta di accesso al mondo interno del cliente e, proprio per questo, si trasforma, nei fatti, nello spazio protetto dell’ Etica di tutta la relazione. Infatti, al di là delle skills  che in ogni  momento della relazione d’ aiuto  un counselor deve mettere in gioco, nel primo colloquio si impostano  le dinamiche  più delicate di tutto il percorso. Del resto non si può non considerare, che anche  la stessa scelta dell’ intervento più opportuno ha sempre e comunque implicazioni etiche per il fatto stesso che deve essere in grado di agevolare, promuovere, accompagnare il cambiamento dell’ utente.

Fine e Gllasser identificano addirittura “un’ etica di mezzi e di fini” per sottolineare come  ogni helper sia  eticamente responsabile  già al momento della scelta operativa maggiormente idonea ad agevolare l’ helper nell’ attivazione del processo di cambiamento. I due psicoterapeuti, tra l’altro, ricordano di come il primo colloquio debba essere il luogo della consapevolezza da parte dell’ utente,  non solo dell’ obiettivo possibile, ma anche degli strumenti che si impiegheranno per raggiungerlo. Di certo è anche attraverso la condivisione di mezzi  che si costruisce la motivazione al cambiamento.

Ma, a mio parere, agire eticamente, a questo proposito, vuol dire, ancora una volta trovare il giusto equilibrio tra la esigenza consapevole del cliente di essere dal primo istante soggetto attivo della relazione e la necessità per lui stesso, presumibilmente non consapevolizzata, che il counselor debba riuscire a funzionare come  la metafora di uno specchio: ossia rimandando al cliente, senza alcuna contaminazione, la propria immagine. Da questo punto di vista, trovo maggiormente condivisibile la posizione di chi sostiene  che  mettere l’ utente a conoscenza della impostazione metodologica che si ha intenzione di seguire, potrebbe compromettere  la  ratio stessa del percorso di counseling: la promozione al cambiamento. In fondo come ci si può avviare ad un processo di auto esplorazione se si rischia di guardarsi attraverso una lente deformata fornita proprio da chi, per il suo stesso ruolo, è davanti a noi per agevolare la nostra iniziativa? Eppure, nonostante tutte queste considerazioni, il vero oggetto del primo colloquio resta sempre la relazione in se stessa.

Qualunque tipo di counselor si sia, qualunque tipo di cliente si abbia davanti, a prescindere da quello che ci si senta di condividere in quel momento, ciò che sottende è una sola e semplice domanda: ”Sono compatibile con questa persona?”A ben vedere il contenuto essenziale del primo colloquio si esaurisce in questa domanda, poiché, quel luogo, quel momento sarà l’ unico in cui entrambi i soggetti coinvolti nel rapporto dialogico cercheranno di trovare una risposta assolutamente individuale allo stesso interrogativo. 

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