Empatia: non basta la parola. Esplorare l’altro con lo scafandro

Inviato da Nuccio Salis

empatia madre_figlio1. Comprendere il nostro prossimo è un ottimo punto di partenza per poter attivare un sistema di sostegno efficace e funzionante. Accogliere il mondo esperienziale dell’altro, intuirne le dinamiche, i risvolti, accalappiarne i vissuti, è un modo per dare luogo al fenomeno dell’incontro. Tale contatto di emozioni e sentimenti, per poter essere ricercato e vissuto, deve essere considerato come lo strumento in assoluto più prezioso nel poterci capacitare ad essere realmente di aiuto verso l’altro da noi.
Alzi la mano chi non ha mai pensato di poter trovare la strategia o lo strumento perfetto per poter capire fino in fondo cosa si agita o cosa si nasconde dentro il contenitore intrapsichico di ciascuno.

 

A chi non piacerebbe, soprattutto in luogo dell’attività di offrire il proprio aiuto, avere la certezza di poter sondare con estrema chiarezza fra le fitte trame dei pensieri della persona che abbiamo di fronte, di poterne esplorare in trasparenza i vissuti ed i significati che vi sono correlati. Leggere insomma dentro l’altro da noi ogni insondabile mistero, celato perfino alla consapevolezza del nostro stesso interlocutore. Ebbene, dal momento che ancora tale strumento di radiografia del pensiero e dei sentimenti non possiamo applicarlo in situazione, non ci resta che rintracciare fra i vari modelli teorici quello che più ci può aiutare a definire l’entità e la qualità del fenomeno di fronte a cui ci troviamo. Ed anche una volta trovatolo, esso sancirà più che altro il nostro personale orientamento professionale, metterà in evidenza una scuola di appartenenza ed il paradigma che abbiamo scelto di sposare, e non costituirà l’assoluta certezza della nostra proprietà di indagine psichica.
Allora cosa possiamo usare per catturare letteralmente il mondo emozionale dell’altro da noi? Come possiamo cogliere e raccogliere i vissuti altrui, spalancandoceli con una certa approssimazione di chiarezza e veridicità? Non ci resta che sentirli, farli cioè in parte anche nostri, condividerli entro un certo limite, utilizzare una delle capacità più antiche dell’uomo, quella di riconoscere anche nell’altro processi ed espressioni di natura emozionale, compartecipandovi con la propria identità e personale struttura psichica.
In vero, lo strumento ancora più efficace e collaudato nel rapporto dell’aiuto, in merito all’accoglienza e comprensione degli stati sentimentali altrui, resta di fatto l’empatia.
Per tale ordine di ragione, essa richiede all’operatore sociale che ne fa uso, un sapiente registro formato da consapevolezza intellettuale congiunta a competenza e training applicativo, in modo da procedere ad un impiego efficace che sia di facilitazione e non di ostacolo, di crescita e non di blocco.
È importante cioè sapere cosa sia davvero l’empatia, senza confonderla con la compassione, con l’identificazione adesiva al Sé altrui, scivolando in uno sterile ed ingenuo pietismo. È altrettanto essenziale saperne misurare i livelli, impiegare varie risposte e tipologie empatiche a seconda del grado di alleanza raggiunta nel rapporto o delle caratteristiche personali dell’interlocutore. Insomma, non basta dire empatia, occorre sapere quando e come utilizzare l’empatia nella varie forme e contesti.
Come qualunque altro strumento di intervento, essa può confacersi agli scopi addotti al percorsi dell’aiuto soltanto se utilizzata in modo saggio, ponderato e professionale.
La sensibilità quindi non basta, essa va educata all’interno di un percorso formativo che richiede l’affinamento sofisticato di una immancabile abilità di base, ovvero la capacità di sentire il mondo interiore di un’altra persona come se fosse anche il nostro.

 

2. Quando in letteratura si fa riferimento al comprendere ed accogliere il mondo esperienziale dell’altro da se, come se fosse il nostro, la dimensione del “Come se” non è certo un’espressione usata per rendere più musicale la metrica della frase. Dal momento che per comprendere l’altro, infatti, ci dobbiamo assumere l’impegno di toccarne i vissuti, rendendoci in qualche misura partecipi ci ciò che passa per la mente e per il cuore di una persona, ciò ci aprirà inevitabilmente all’esperienza dell’essere travolti dal pathos che l’altro ci invia suo malgrado con tutto il “pasto nudo” della sua anima e delle sue ferite.
Ciò pone immediatamente in rilievo un aspetto non certo secondario, ma anzi parallelo, alla capacità di “mettersi nei panni di”, ovvero l’abilità collaterale dell’ “uscire dai panni di”. Si sa che secondo una certa psicologia ingenua, è sufficiente avere una spiccata dose di intuitività e sensibilità per entrare nel mondo intrapsichico dell’altro da noi, e poco si pensa a come non farsene ingoiare senza rimanerne subdolamente intrappolati.
Quindi, esercitare la competenza in riferimento all’effettuare l’ingresso nell’altrui dimensione emozionale, prosegue di pari passo con l’esperienza del prepararsi anche al ritorno nel proprio mondo. Diversamente, se ciò non accadesse, perderemo la nostra individualità e rimarremmo invischiati in una struttura di emozioni, proiezioni e convinzioni che non ci appartengono. Questo può far comprendere come sia necessaria possedere una propria consolidata visione delle cose, che non significa chiusa e rigida, certamente soggetta al cambiamento e al tempo stesso certa della propria autenticità e validità complessiva. Va da se che l’empatia, a questo punto, è un processo a due vie: una di andata, consistente nell’entrare a contatto col senso delle emozioni vissute dall’altro, ed una strada di ritorno che sancisce la riconquista di se ed il riaffioramento di se a seguito dell’immersione dentro qualcosa che esiste indipendentemente.
Si ricava facilmente che usare l’empatia non significa improvvisare con la propria naturale sensibilità, quanto invece formare e collaudare una vera e propria competenza nel repertorio degli strumenti interpersonali dell’operatore dell’aiuto. Occorre in primissimo luogo un doveroso sguardo interiore che, a dirla tutta, è il vero significato originario del termine empatia inteso proprio come em πάθος. È irrinunciabile cioè conoscere a fondo le proprie strutture personologiche, svelare a se stessi con grande spirito di ricerca e di crescita le modalità attraverso cui entriamo in contatto col mondo, e le conseguenze che creiamo a noi stessi ed agli altri. È necessario attuare un costante monitoraggio di se in termini di lettura interiore, comprendendo dal punto di vista emotivo cosa ci caratterizza di più, come è connaturata la nostra “batteria” emotiva in termini di strutture e anche di processi, andando al cuore dei nostri costrutti personali, comprendendo quali comandi interni si attivano, come, perché e quali emozioni filtriamo e trasmutiamo.
Si procede dunque motivati da un grande desiderio di destrutturazione e riscoperta di se, motivati da una tensione trasformativa. L’empatia richiede dunque maturità psicologica, senso di responsabilità ed autentico interesse verso il prossimo. La curiosità da rivolgere all’altro da noi, naturalmente, non è quella del vicino di stenditoio ma una propensione ad entrare in sintonia con qualcuno, nella consapevolezza che il rispetto della natura intrapsichica della persona con cui confrontiamo passa proprio attraverso la differenziazione. Solo restituendo ciò che abbiamo visto, esplorato e colto, l’altro può sentirsi accettato. Se qualcuno ci sente uguali a lui possiamo fare l’esperienza della piena alleanza e condivisione, ma non possiamo essere sicuri che ci sia qualcuno disposto a sentire quello che abbiamo dentro in modo da prenderne contatto e ritornare al proprio mondo. Solo questo movimento assicura quella distanza psicologica di cui ha bisogno sia il facilitatore della relazione che il suo cliente. Il primo ne ha bisogno per evitare di affondare dentro un calderone di emozioni che potrebbero incatenarlo a vissuti invischianti, ed il secondo per potersi riappropriare da ciò che gli appartiene come unicità dell’esperienza, e che può essere accolta, compresa e guardata senza orrori, come chi lo aiuta gli ha dimostrato.

 

3. A fronte di tutto questo, sono solito usare la metafora del palombaro, per spiegare in cosa consiste il rapporto empatico con l’altro da noi. Il palombaro esplora gli abissi protetto da un tuta di metallo e da un vetro per guardare all’esterno. Egli non perde il contatto con la superficie, e respira attraverso un tubo. Egli, immergendosi, è pronto ad assumersi i rischi di quello che corre, e sa anche che tutto ciò che osserverà sarà la sola realtà che potrà osservare, e che temporaneamente lo immergerà completamente. Al tempo stesso, nonostante l’impatto dell’esperienza che sarà disposto a fare, conserverà la consapevolezza che esiste il proprio modello di realtà differente da quella osservata, e verso la quale dovrà fare ritorno, prima che qualche enorme squalo lo aggredisca nel tentativo di inghiottirselo. Il palombaro avrà avuto cura di aver preparato dapprima il suo equipaggiamento, di averne collaudato la robustezza e la funzionalità, e di accettare comunque il margine di imprevisto e di errore da considerare per ogni complessa evenienza.
Il mondo dell’altro va dunque guardato ed esplorato da molto vicino, con estrema cautela e rispetto, e con le dovute protezioni, restituendone l’autenticità soprattutto mediante tecniche di riformulazione di contenuti e significati, perché ciò è un modo per riemergere a galla, evitando di inabissarsi perdendo la rotta.
Quindi, è bene sempre sottolineare come l’empatia consti di questo doppio movimento: il primo segnato da un decentramento da sé che consente la sospensione temporanea delle nostre strutture percettive e di attivare una simulata ed ottimale neutralità “marziana” del pensiero; dopodiché ciò sarà seguito da una ragguardevole disidentificazione per riappropriarci di una dimensione di individualità la cui posizione è in grado proprio di attivare il servizio dell’aiuto alla persona.
Buona immersione a tutti!
 

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