Il linguaggio non-verbale ed i rischi delle diagnosi da “ mentalist “


linguaggio del_corpoNon c’è bisogno, in questa sede, di spendere troppe parole per descrivere il linguaggio non verbale. Ci basti ricordare che con questa terminologia indichiamo il complesso di segnali corporei ( gestualità, mimica, postura, prossemica, uso dello sguardo, respirazione ) e vocali ( tono e timbro di voce, velocità nel parlare, pause, tipo di fraseologia utilizzata ) che accompagna il verbale ossia il contenuto delle parole.

Il primo gruppo costituisce il non-verbale vero e proprio. Il secondo è più propriamente denominato para-verbale.

Si sa che il non-verbale ( con ciò da ora in poi indicheremo il linguaggio del corpo nel suo insieme ) in alcune circostanze sostiene quanto detto a parole potenziando, così, il messaggio. In altre, al contrario, lo contraddice e lo indebolisce.

Queste considerazioni sono più che sufficienti per evidenziare l’importanza di questo tipo di modalità comunicativa ai fini di una piena ed efficace espressione di ciò che si pensa, si dice e si vorrebbe dire.

Il non verbale assume un tale spessore nell’elaborazione della comunicazione efficace che per diversi studiosi del comportamento umano tale efficacia è fondata addirittura per tre quarti solo sui segnali corporei.

Non è certo nostra intenzione confutare tale attribuzione di valore né ci sogniamo di disconoscere che la comunicazione è tanto più efficace quanto più c’è congruenza tra parola e modalità di espressione.

Ciò che invece ci trova scettici è l’esclusività attribuita al non verbale nel determinare l’efficacia della comunicazione nonché l’elaborazione di diagnosi caratteriali a partire da segnali corporei e vocali. 

Non si può certo negare che nella fase di esordio di una relazione, di qualsiasi natura e spessore, gli elementi non verbali prevalgano su quelli contenutistici. L’esperienza di tutti i giorni ci dimostra sufficientemente la fondatezza di quest’assunto. Quando conosciamo una persona, ad esempio, restiamo colpiti prima dai suoi atteggiamenti ( compreso l’abbigliamento ) e poi da ciò che dice. Tant’è che, spesso, essendo troppo attenti al non verbale ci lasciamo sfuggire il nome con cui quella persona si è presentata, rischiando poi sgradevoli equivoci.

Tale priorità si inspessisce al crescere del valore che assume, per i partecipanti, la relazione. Accade, ad esempio, durante un colloquio di lavoro ( una quota dell’addestramento dei selezionatori consiste proprio nel mantenere una visione d’insieme del candidato ) oppure durante un dibattito in pubblico ( vale sia per chi si rivolge alla platea sia per chi ascolta ). O quando ci si avvicina ad una persona ( nel sociale o negli affetti ) che si ha particolare interesse a conoscere.

Così come pure nell’ambito di un rapporto solido e duraturo una fase di cambiamento, momentaneo o meno, è segnata particolarmente da specifici atteggiamenti non verbali degli interessati più che dalle parole.

Con il proseguire della relazione altre variabili, dal nostro punto di vista, prendono però il posto del non verbale nel determinare il successo o meno della comunicazione. Il linguaggio del corpo mantiene certamente il suo inevitabile valore ma cominciano a diventare determinanti i contenuti: chi parla in pubblico, ad esempio, superata la fase in cui coinvolge l’uditorio mediante un accurato non verbale, deve mostrare e dimostrare a parole ciò che pensa, dice e vorrebbe dire rispetto all’oggetto ed agli obiettivi della comunicazione. Solo se tali contenuti sono congruenti con gli scopi e le aspettative di chi ascolta l’oratore ( docente, formatore, conferenziere, amministratore di un’assemblea condominiale, politico, ecc. ) continuerà ad orientare su di sé l’attenzione della platea.

Lo stesso vale nelle esperienze più o meno minime della vita quotidiana: nel fare conoscenza, superato l’impatto fondato sulle apparenze, si bada poi a quello che ci si dice. Gli atteggiamenti mantengono il loro spessore ma da soli non bastano a favorire la relazione.

L’affermazione del non verbale come elemento unico e fondante della comunicazione efficace ha trovato, e tutt’ora trova, il suo sostegno in alcuni orientamenti socio – culturali tipici della società post-moderna. Tra questi primeggiano la diffidenza verso le grandi teorie ed il primato della immediatezza. I due elementi sono strettamente connessi : la teoria, intesa come corpo concettuale legato ad una specifica visione del mondo e dell’uomo, richiede studio ed approfondimento e dunque consumo di tempo. Ma la società contemporanea privilegia l’apparenza intesa come ciò che, della realtà, emerge immediatamente. L’apparenza, a sua volta, coincide con una contrazione temporale che non lascia troppi margini alla riflessione ed all’attesa.

In un ambiente socio – culturale schiacciato sul presente, come viene definito dai critici della post – modernità, il linguaggio non verbale è diventato lo strumento privilegiato di osservazione, analisi e diagnosi dell’agire umano.

Tale disposizione tra l’altro ha rappresentato, e rappresenta, una risposta ad altri tipi di orientamenti analitici e diagnostici fondati sulla visione dell’individuo come entità incapsulata nel suo passato e da esaminare in totale isolamento rispetto a qualsiasi altro contesto umano, relazionale, ecc.

Come spesso accade, però, opporsi ad una teoria che si ritiene obsoleta elaborandone una del tutto opposta non è mai la soluzione appropriata. Così facendo si rischia, come si dice comunemente, di buttare via l’acqua sporca con il bambino dentro.

Ribadiamo ancora una volta che non è nostra intenzione criticare l’opera preziosa di Autori che si occupano del comportamento umano quale dimensione di segni visibili ed udibili e non solo come esito di impulsi nascosti da sondare e rimuovere attraverso lunghi processi di ispezione ed introspezione.

Pensiamo, ad esempio, ai lavori di Paul Watzlawick e dei suoi collaboratori della Scuola di Palo Alto1 nell’analisi della comunicazione come sinonimo di comportamento e dei suoi effetti nell’ambiente relazionale ( emerge così l’importanza della relazione ) in cui la stessa ha luogo.

Né vogliamo ridurre la portata di quegli orientamenti teorici che privilegiano la connessione mente – corpo ed i processi di somatizzazione.

Ci preme, più semplicemente, sottolineare che nella nostra ottica il linguaggio non verbale rappresenta il materiale da cui ha origine la comprensione dell’altro ma non la conclude.

Tale assunto, anzi, non sminuisce il valore del linguaggio del corpo come modalità espressiva ma anzi lo amplifica. Una efficace attività di ascolto, ad esempio, vuole che si colga ogni segno non verbale inviato da chi chiede, direttamente o indirettamente, ascolto.
All’osservazione deve poi seguire la sospensione del giudizio e, dunque, una disposizione all’empatia per poi riuscire a comprendere quali pensieri, emozioni e convinzioni sono veicolati da quel segno. Ciò è fondamentale in ogni tipo di relazione e non solo lì dove l’ascolto ne costituisca forma e contenuto.

E’ vero che le persone non dispongono sempre del tempo adeguato per parlarsi e capirsi. Al di là degli impegni effettivi quotidiani tale carenza è poi amplificata dal clima culturale post – moderno in cui la rapidità è sinonimo di efficacia ed efficienza, spesso a prescindere dagli esiti dell’agire velocemente. La rapidità è fine a sé stessa ed acquista valore qualsiasi strumento, materiale od immateriale, che riproponga il modello velocità uguale efficacia ed efficienza.

Ma l’agire rapido, così inteso, è solo pseudo - efficacia. Trascurare i contenuti e non tenere conto dei contesti relazionali conduce spesso a comportamenti dagli esiti indesiderati dopo i quali o si rinuncia o è tutto da ripetere.

Considerare poi solo i segnali non verbali e ritenere che migliorare la comunicazione prevalentemente voglia dire più che altro migliorarli ( più veloci, più essenziali, più ecc. ecc,. ) riporta indietro lo studio della comunicazione interpersonale di almeno sessant’anni, ai tempi del Modello Matematico di Shannon e Weawer e della Bullet Theory 2.

L’assimilazione immediatezza – velocità – efficacia ed efficienza è alla base anche dell’emissione, spesso disinvolta, di diagnosi caratteriali a partire dall’osservazione dei segnali non verbali.

Inutile sottolineare che non ci stiamo riferendo, come già accennato, a quelle teorie che si concentrano sui processi di somatizzazione bensì alla tendenza ad attribuire ad un individuo etichette quali introverso, timido, espansivo, manipolatore, ecc. generalizzando, senza alcuna fondatezza, un suo specifico atteggiamento. Etichette, tra l’altro, che non si limitano ad una descrizione formale di un comportamento ma pretendono di dire com’è quella persona. Se non addirittura chi è.

Ritenere che mettersi a braccia incrociate, ad esempio, sia segno di chiusura può anche essere legittimo ma non lo è, secondo noi, utilizzare questo segnale per diagnosticare una rigidità caratteriale. Lo stesso vale per ogni altro atteggiamento. Quello che vogliamo dire è che il segno può indicare alquanto distintamente cosa stia accadendo nella persona, in quel momento e non necessariamente in tutti i momenti, ma non ci dice nulla sul perché stia accadendo. Comprendere il contenuto di un comportamento, anche minimo, non richiede necessariamente processi analitici ed introspettivi ma resta accessibile comunque solo attraverso un’attività di osservazione ed ascolto. Un’indagine, dunque, non sempre lunga e faticosa ma certo impegnativa e che non prevede immediatezza ed attribuzione di etichette diagnostiche.

1 Cfr Watlzlawick P., Beavin J.H., Jackson D. D., Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971

2 Cfr. Savarese R., Comunicazione media e società, Gruppo editoriale Esselibri - Simone, Napoli, 2004 

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