La comunicazione conflittuale: dal determinismo Stimolo – Risposta al Tempo dell'Ascolto


comunicazione conflittuale_2Non è necessario riferirsi alle cronache quotidiane per riconoscere come le persone, oggi, abbiano sempre più difficoltà a capire ed a farsi capire. Giornali e TV riportano casi eclatanti di incomunicabilità che si verificano in contesti in cui, al contrario, è legittimo attendersi accoglienza ed ascolto: la famiglia, in primo luogo, a seguire l’ambiente professionale, la scuola, i gruppi sociali. Nella normalità quotidiana non si giunge, per fortuna, a tali estremi disaccordi. Ciò non toglie che anche in questa dimensione siano frequenti i momenti di profonda incomprensione e di doloroso disagio interiore. Certo, il contrasto relazionale ormai pervade il nostro vivere collettivo. L’elemento dirompente è che, come dicevamo all’inizio, lo scontro tra modi diversi di interpretare il mondo appartiene anche a quegli ambienti che, invece, dovrebbero fare da argine alla conflittualità sociale.

Non ci stiamo riferendo alla normale ed auspicabile differenza, segno distintivo della individualità, che ci deve essere tra modi di pensare e che rappresenta la premessa indispensabile alla comunicazione. Lo scambio di contenuti verbali e non verbali ha come meta la conferma delle alterità e non certo l’omologazione delle menti. L’oggetto della nostra riflessione, al contrario, è quel discutere senza sapere su cosa lo si stia facendo, è lo scollegamento tra pensiero e parola e non perché soggetti a patologie dissociative ma in quanto vinti – in quel momento - da emozioni e pensieri negativi. E’ quel parlare tra persone che ritengono, in tutta onestà, ognuno di dire la propria per poi accorgersi che così non è stato. Senza comprenderne la ragione. Stiamo dunque riflettendo sulla impossibilità, o incapacità, a manifestare la propria alterità, a rafforzarla e, nello stesso tempo, a metterla in gioco.

Quando tale dinamica non si realizza vuol dire che la comunicazione si è bloccata. La domanda, dunque, è: come mai tale evento spesso avviene proprio lì dove esistono premesse che lasciano prevedere il contrario? Il che non significa che comunicare, già sottolineato ma è bene ribadirlo, implichi l’essere sempre tutti d’accordo. Comunicazione, a dispetto dei luoghi comuni, vuol dire “semplicemente” mettere in comune i propri mondi emotivi e cognitivi al di là del fatto che si giunga o meno ad un accordo . Comunicare esprime, nella sua natura, il messaggio “ Io e te dialoghiamo anche se siamo diversi”, anzi “ Io e te dialoghiamo proprio perché siamo diversi”. Non è una questione di “ buonismo” ma di sopravvivenza: il progresso si fonda sulle differenze, non sulle omologazioni.

Chi ferma la storia è colui che tende a fare del mondo una sua controfigura: prima o poi è la realtà stessa a disarcionarlo dal suo trono, non gli oppositori ( se ancora ce ne sono). La domanda che ci siamo posti mette in evidenza che, nelle relazioni umane, gli scambi non avvengono mediante il modello deterministico Stimolo – Risposta. Se così fosse, sarebbe sufficiente migliorare l’impulso che si invia per ottenere, dal destinatario, la reazione che si desidera. Ad un genitore, ad esempio, sarebbe sufficiente scegliere con cura le parole e gli atteggiamenti con cui dare regole al figlio per garantirsi l’ubbidienza.

Oppure nel manifestargli affetto, per essere certo che tale sentimento sia riconosciuto e compreso. Così sarebbe, con le opportune differenze, tra coniugi o nelle professioni. Qui basterebbe che tutti i membri di uno staff aziendale condividessero il medesimo obiettivo ( es. portare a casa lo stipendio a fine mese) per assicurarsi quantomeno un ambiente lavorativo sereno in cui dedicarsi pienamente ed esclusivamente a “ far soldi”. Eppure la conflittualità relazionale in Azienda ricorda che non sempre è sufficiente, nel gruppo, seguire un medesimo scopo.

Che è difficile dare regole, e seguirle, senza generare disagi e contrasti anche lì dove la normativa è palesemente funzionale al raggiungimento della meta. Non basta curare lo stimolo, insomma, per produrre la risposta utile. Potenziare le proprie modalità comunicative, se così fosse, si ridurrebbe a perfezionare la scelta del proprio lessico e dei propri atteggiamenti. Terminologia e non verbale sono certamente elementi insostituibili di una comunicazione efficace ma non sufficienti a realizzarla.

Ce lo dice, appunto, la quotidiana conflittualità relazionale. Che la comunicazione fosse riconducibile, e riducibile, al modello deterministico fu la convinzione su cui si sono fondati i primi studi sugli scambi interpersonali nel momento che la comunicazione assunse il valore di una disciplina a sé stante, certamente connessa ad altre materie come psicologia, sociologia, antropologia, linguistica ma comunque provvista di un autonomo statuto disciplinare. Sullo stesso assunto si legittimò, a metà del secolo scorso, il messaggio pubblicitario che si voleva sempre più accurato ( più ripetitivo, più dinamico, più aggressivo, più distante possibile dalla realtà) così da essere più diretto e preciso nel cogliere ( o suscitare ex novo) il bisogno/ desiderio del destinatario.

Migliorare lo stimolo, dunque, per ricevere la risposta prevista, utile e desiderata. Era una procedura fondata sull’insistenza ed adottata anche dalla politica in particolar modo quando si fece unicamente portatrice di interessi più che di valori. Da quando si staccò dalla logica del partito di massa per assumere quella del partito personale. L’insistenza è diventata poi il principio su cui si è fondata e si fonda la società post-moderna nella gran parte delle sue dimensioni. Impoverimento delle ideologie, intese come grande narrazione ( ognuna con il suo punto di vista) della storia della umanità, sostituzione dunque della storia con la cronaca, amplificazione di un eterno presente a scapito della memoria e del progetto sono elementi che non possono non avere peso sulla comunicazione in ogni sua espressione. Compresa quella del “ faccia a faccia”. Affinare lo stimolo va bene, è indispensabile, ma esso agisce su una complessità di variabili emotive/ cognitive e comportamentali che in alcuni casi possono indebolire o azzerare la “ perfezione” dell’impulso.

Così è per il messaggio pubblicitario. Così è per il discorso politico. Così è, ancor di più, per la comunicazione interpersonale. La Sociologia ci dice che il ruolo di chi emette il messaggio, e quello del destinatario, sono fattori che orientano significativamente l’efficacia dello Stimolo, l’interpretazione che ne fa il ricevente e, dunque, la direzione della Risposta. La Sociologia, e tutte le discipline che in qualche modo osservano l’ambiente sociale/ culturale/ economico in cui avviene la comunicazione, ricorda gli effetti che il contesto ha su di essa. Sul messaggio, inoltre, agisce anche un ambiente “ interno” vale a dire il sistema emotivo e cognitivo dei parlanti.

Tale complesso di emozioni / pensieri/ sentimenti/ convinzioni e comportamenti rappresenta il luogo d’origine del messaggio e, contemporaneamente, né è la lente che lo rende più chiaro oppure lo distorce. La differenza tra le persone può allora essere o cassa di risonanza dei significati oppure filtro deformante. O un definitivo muro invalicabile. Risolvere la conflittualità relazionale richiede allora, oltre che la preziosa cura degli strumenti verbali e non verbali con cui si comunica, comprendere cosa accade in quello spazio che si crea tra Stimolo e Risposta. Si tratta del luogo in cui, parafrasando il filosofo Gianni Vattimo, “ la parola risuona”. E’ lì che il messaggio, sia in entrata che in uscita, trova effettivamente il suo significato.

Questo è il significato che, nel dire, va cercato e, nel ricevere, va ascoltato. Non ci riferiamo al compito che spetta al professionista dell’ascolto. Non tutte le distorsioni e i disagi che ne conseguono sono materia di lavoro per psicologi/ psichiatri/ medici e quant’altri si occupino delle patologie ( effettive o presunte) comportamentali. Si tratta di un impegno che ognuno, nel suo quotidiano, può compiere su di sé e sugli altri, in particolar modo in quei contesti in cui la comunicazione ha tutte le carte in regola per giungere a compimento. Ciò diventa possibile solo se ognuno esce da quel riduzionismo a cui, a volte, ci si chiude per pigrizia mentale o perché pressati dalle accelerazioni del quotidiano. Quest’uscire si traduce in “ darsi tempo” e “dare tempo”.

Darsi tempo per ascoltare e dare tempo all’altro per esprimersi ciò che effettivamente vuole dire. Il tempo dell’ascolto, diverso per qualità al tempo cronologico, implica la capacità e la volontà di sospendere il giudizio ossia di accogliere l’altro privi del supporto delle proprie convinzioni ( che non significa rinunciarvi). Mettere accanto a sé, e non davanti a sé, le proprie credenze significa avere coraggio. Coraggio di riconoscere che ci sono ancora altre domande da porre alla realtà che resta sì una ma, a volte, non ancora definita, capita, esaurita. Coraggio di porre queste domande o di ammettere la propria incapacità o impossibilità a farlo.

Coraggio di non trasferire le proprie eventuali incapacità ed impossibilità sulla complessità della realtà Ciò vale nel caso di qualsiasi realtà, che sia umana o sociale o altro. Che sia la realtà costituita dalla personalità di un figlio, di un coniuge, di un amico, ecc. Realtà complesse, mai definitive. Certo non riducibili al modello Stimolo – Risposta.

Sembra poco ma non lo è, lì dove la vita corre sui binari dell’insistenza.

Bibliografia Galli C. : L’umanità multiculturale, Ed. Il Mulino, Bologna, 2008 Savarese R.: Comunicazione, media e società, Ed. Esselibri – Simone, Napoli, 2004 Stewart I., V. Joines.: L’Analisi Transazionale: guida alla psicologia dei rapporti umani , Garzanti Editore, Milano, 1992 Vattimo G. : Introduzione ad Heidegger, Editori Laterza, Roma – Bari, 2002

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