L’Analisi Transazionale ci insegna che quando due interlocutori entrano in relazione fra loro, molto probabilmente due invisibili avvocati stanno redigendo un reciproco rapporto di contratto, all’insaputa del loro stesso involucro apparente che noi chiamiamo individuo. Questa scoperta ha ricadute davvero inquietanti, e la sua forza rivelatrice è pari a quella sulla natura dell’inconscio. L’AT, infatti, che può essere considerata una sorta di figlia ribelle della psicanalisi, eredita da quest’ultima il paradigma focale circa il tema dell’essere vissuti da qualcosa di cui non si dispone del totale controllo. La questione, dibattuta anche più anticamente da illustri filosofi e pensatori, ha sviluppato una vivace dialettica che ha prodotto numerose riflessioni a taglio pienamente umanistico, con associate implicanze a rilievo educativo.
Forse, fra i più marcati e radicali sostenitori dell’impossibilità di controllare con pieno regime di consapevolezza le determinanti del proprio Io e di conseguenza i suoi comportamenti, fu lo psicanalista George Walter Groddeck, il quale tagliò molto corto, sostenendo senza mezzi termini che noi siamo vissuti dall’Es, il quale sovrasta l’Io sostituendovisi in modo ingiurioso, agendo come se fosse una persona dall’autonoma caratura di pensiero, che abita dentro di noi e ci illude di essere capaci di scegliere e liberi di decidere. Secondo Groddeck, che infatti nel spiegare il linguaggio dell’inconscio utilizza propriamente uno pseudonimo, ciò che chiamiamo Io, dunque, sarebbe sempre un “Altro Io”, una sorta di parassita che vive al posto nostro, e ciò trasformerebbe un counselor in un esorcista, col risultato esclusivo di peggiorare ulteriormente il problema politico della costituzione dell’albo professionale, e di modificare soltanto la reazione avversa delle categorie professionali; in quanto al posto degli psicologi cominceranno a farci la posta anche cartomanti e fattucchieri.
Non ci resta allora che capire ed ammettere questo fenomeno che, se confermato in tutte le sue versioni, potrebbe farci conclamare tutti come “schizofrenici”, anche se, per fortuna, il nostro inquadramento professionale si distingue dall’area clinica e diagnostica. E allora questa realtà merita un attenzione non certamente marginale. A dimostrarcelo sono proprio gli studi di Eric Berne sui processi della relazione interpersonale. In diversi ambiti della relazione, ci spiega Berne, le persone sembrano, e sottolineo sembrano, entrare in contatto fra loro secondo schemi mediante i quali si inviano reciprocamente messaggi informazionali congruenti con la realtà circoscritta al qui ed ora che li contiene. In effetti questo può avvenire, di tanto in tanto, ma se accade vi è in genere una semplice ragione: il contesto spazio-temporale non ci permette di approfondire il nostro confronto o nemmeno di implementare l’ipotesi di avvicendarsi in un prosieguo del legame, tale da declinarlo in una tipologia a carattere intimo o confidenziale.
Quindi, se ci incontriamo con un conoscente per un saluto fugace o chiediamo l’ora ad un passante o il prezzo della cipolla a una commessa, inviamo ed accogliamo rispettivamente richieste e risposte aderenti al piano di evidenza. E questo avvocato invisibile se ne sta buono buono in un recondito angolino della nostre psiche, ad aspettare. Se le nostre relazioni si prolungano, in modo da richiedere un allargamento ed un ridimensionamento della struttura spazio-temporale dentro cui le creiamo, la necessità di fuoriuscire dal pantano stereotipo e formale dei rituali si fa dirompente, e il nostro avvocato interiore comincia ad allestire il suo ufficio, perché sa che dovrà ricevere un cliente, o meglio un collega avvocato dell’altro interlocutore.
Secondo Berne, quando ci confrontiamo con un’altra persona e, frequentandola, cominciamo a costruire un legame a valenza affettiva, cioè riduciamo più o meno significativamente le distanze psicologiche, attiviamo un sistema di difesa, una sorta di contraerea che ci fa vestire la divisa di un falso Sé, di un ruolo sociale che recita mediante un copione prescritto. Dentro quest’ottica, ciascuno di noi è visto non come persona autentica ma come “giocatore”; un “giocatore” che però non si diverte affatto, in quanto ad avere la parola sarebbe per l’appunto questo misterioso avvocato che conduce a nostra insaputa un boicottaggio teso a farci capitolare, a produrre avvenimenti spiacevoli, a ritrovarci feriti o amareggiati, anche se all’inizio, come previsto dalla trappola, sembrava andare tutto bene. Deve succedere sempre cosi? Berne ha sempre ragione?
Non succede sempre così, e Berne non cercava né di avere ragione né di avere torto; cercava piuttosto di comprendere le ragioni per cui le persone sembrano perseverare a mettersi nei guai, finire nei pasticci, vivere generando ostilità e cacciandosi nelle forme più disparate di disagio. L’epicentro di tutto fu individuato nella mancanza di una positiva valutazione affettiva e di attribuzione di qualità meritevoli di amore, o verso se o verso l’altro e naturalmente secondo una doppia attribuzione di squalifica. Ma allora che fare? Evitare di entrare in forme approfondite di contatto?
Inviando o restituendo soltanto dati di realtà non corriamo nessun rischio; chiedendo solo che ore sono e rispondendo soltanto “bene grazie non c’è di che arrivederci a domani tenga il resto” siamo riparati dal mondo delle relazioni. Si attiverebbe un tipo di comunicazione detta computazionale, tipica infatti di due elaboratori di dati che si scambiano i dati contenuti nei loro rispettivi software. E dentro i software non ci sono avvocati, anche se ci possono essere i virus, e ciò rende ancora più interessante il parallelismo dei processi elaborativi fra uomo e macchina. In ogni caso, questo si può fare soltanto se non ci fosse alcuna alternativa per strutturare una relazione efficace.
È possibile invece pensare che se non vi fosse nessuna matrice di attribuzione di qualità negative né verso noi stessi né verso gli altri, questo aprirebbe i rapporti umani alla concordia, alla fiducia, al rispetto, alla gentilezza e, udite udite, alla cooperazione! E tutto questo uscendo dalla formalità. Quindi non ci resta che sfidare questa “eminenza grigia”, per usare il soprannome che il matematico John Nash attribuisce ad una delle sue allucinazioni nel film A beautiful mind.
Perché è così che io me lo immagino questo avvocato interiore, di scuro vestito e con occhi penetranti. È difficile trovare chi non ce l’ha proprio, è più probabile invece affrontarlo, comprendere le ragioni della sua rabbia, delle sue frustrazioni, capire che cosa ci chiede per nutrirlo, sapere come vive ma soprattutto come muore, in modo da trasformarlo, perché non è che deve convivere con noi, se ne deve proprio andare. Se infatti ne ignoriamo l’esistenza, cosa che gli garantisce la sopravvivenza, lui ne verrà giovato a nostro danno, e vivrà a nostre spese, esattamente come il bacherozzo intanato sotto il lavabo che ha aperto a nostra insaputa una piccola rosticceria. La presenza di questo celato attentatore intrapsichico potrà influire negativamente sulla nostra vita sociale.
Qualunque rapporto, sia formale che informale, ne verrebbe intriso e condizionato, ed in conclusione spinto verso un epilogo dagli esiti incresciosi. Pensiamo per esempio ad un mezzo che sancisce la relazione formale, che è quello del contratto. Per erigerlo, sono necessarie almeno due parti sottoscriventi. Un legame sentimentale che include un contratto, quale è per esempio quello del matrimonio, non può essere del tutto compilato dalla nostra entità interiore Adulta, sia essa più o meno integra o compromessa, in quanto, per legarsi sentimentalmente, è necessario provare attrazione ed interesse affettivo nei confronti del partner.
In questa tipologia di contratto relazionale, dunque, è più evidente che il livello formale del contratto (comunione di beni, aspetti burocratici, del diritto legislativo ecc.) sia sovrapposto come non mai al contratto implicito che fa capo essenzialmente alla relazione, e pertanto il percorso e gli sviluppi del romanzo di coppia saranno ad appannaggio degli avvocati interiori, che hanno già scritto l’inizio, la trama ed il finale dell’intero corpo narrativo di ciascun soggetto coinvolto nella relazione. Nei processi della relazione umana esiste dunque un duplice aspetto: quello riferito ad un piano formale ed apparente, dove trova collocazione tutto ciò che è osservabile e udibile: comportamenti, parole, aspetto esteriore, luogo e contesto; ed una hidden dimension, una zona oscura, occulta, che rappresenta poi la vera fonte di significazione e direzione della relazione, che ne definisce il tragitto, la qualità e gli effetti sugli individui interessati, in termini di sensazioni emozionali e conseguenze esistenziali.
Seguendo la descrizione schematica dell’AT parliamo di transazioni ulteriori, le cui fonti originarie sono sempre quelle parti di noi che hanno un maggiore legame col nostro passato, e che lo ripescano modellandoci sulle figure primarie e sulle nostre esperienze già vissute. Perfino a livello delle organizzazioni del lavoro, questo discorso diventa pienamente pertinente se pensiamo per esempio ad un colloquio di lavoro fra un responsabile d’azienda e un candidato aspirante dipendente.
Immaginiamoli l’uno di fronte all’altro, mentre il candidato viene posto sotto l’attenzione di una delle cariche dirigenti. Le domande routinarie tipo: “Quali sono le tue competenze specifiche?”, “Che titoli e requisiti hai?”, “Hai già esperienza su questo settore?”, sono messaggi palesi, inviati dall’Io-Sé Adulto del dirigente d’azienda all’Io-Sé Adulto dell’ipotetico impiegato, che infatti potrebbe rispondere: “So usare il CAD”, “Ho la patente informatica europea”, “Ho lavorato per due anni in uno studio privato”. Fin qui, i foschi avvocati adocchiano la situazione ed attendono, come predatori che hanno individuato la preda da spolpare sotto le loro acuminate e voraci fauci. Una quiete prima della tempesta, poiché se si osservano bene i comportamenti non verbali dei due interlocutori, chissà, magari si potrebbe rilevare che il dirigente parla con una voce tagliente e stentorea, e guarda fisso negli occhi il possibile dipendente, e quest’ultimo assume una postura un pò rigida, sulla difensiva, parla con voce sommessa.
Nel clima relazionale i ruoli sono già definiti nella loro complementarietà, con tutti i loro rispettivi afferenti correlati emozionali. Ad un certo punto, l’amministratore fa la seguente affermazione: “Noi ci teniamo alla produttività e non conosciamo pause. Siamo sempre disponibili, e chiediamo di lavorare anche il sabato, senza troppe maggiorazioni sulla paga oraria”. Il candidato accoglie tali informazioni, e risponde così: “Mi è chiara questa strategia”. Datore di lavoro ed impiegato si capiscono, bene! Il candidato allora può essere assunto, con tutta tranquillità… o no? Forse può esserci qualcosa che non abbiamo sentito, in questo caso possiamo chiamarle le transazioni ulteriori relative alle parole non dette del contratto psicologico.
A livello verbale esplicito, entrambi i soggetti si sono inviati informazioni rispecchianti dati congruenti alla realtà. Ma sono stati loro a parlare? O i loro oscuri avvocati interiori? Se sono stati questi, allora il dirigente ha inviato un messaggio nascosto dal suo Io-Sé Genitore, col quale ha detto, pur senza ausilio di parole: “Ragazzo mio ti metterò a lavorare duramente, dovrai dare tanto accontentandoti di poco, se vorrai conservare il tuo posticino”, e il candidato avrà risposto: “All’inizio cederò ai tuoi patti ma poi vedrai che bello scherzo ti combino, ti denuncerò ai sindacati”, per bocca silente dell’Io-Sé Bambino.
Sul piano informale, le cose non vanno meglio. Questo ci pone di fronte all’enorme ed imponente responsabilità di disporre di accurati strumenti di osservazione e valutazione delle relazioni, perché è in fondo da questo impianto centrale che deriva un tipo di esistenza contornata da rapporti malati, degeneranti nell’invidia, nella cattiveria, nella tragica rottura e nei finali amartici. Dovremmo crescere in ambienti sani, respirando un clima di collaborazione, confronto pacifico, negoziazione e conflitto costruttivo per la differenziazione e la crescita.
I persecutori e le vittime nascono a seguito delle frustate subite ma soprattutto rinforzate da una realtà umana basata sulla competizione, che accende queste pericolose micce, facendo esprimere a ciascuno di noi il peggio di sé: cattiveria gratuita, invidia, ipocrisia, disamore, indifferenza ed egoismo. Utile rimarcare come ciascuno di noi è molto spesso inevitabilmente portatore di ferite e bisogni frustrati e disattesi. Abbiamo dovuto adattarci alla realtà sviluppando delle difese, in genere la corazza dell’apparenza e del falso Sé. È necessario rinascere, ed il counseling cerca di ingegnare gli strumenti più adatti a questa via di riscoperta e di riaffermazione di se.
Ci suggerisce di non cedere subito ai percorsi apparentemente meno ostici, e ci invita ad impegnarci per un rebirthing completo, magari faticoso ma al tempo stesso molto più utile, risolutivo ed appagante.
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