Temperamento e carattere: la dipendenza da fame di approvazione

Inviato da Nuccio Salis

vulnerabilitaCercherò di non fare troppi giri di parole. C’è una caratteristica che ci rende comuni gli uni agli altri, fin dalla nascita, e consiste nella vulnerabilità. Se io in questo momento sto scrivendo, e se qualcun altro sta leggendo dall’altra parte, anche se mi è sconosciuto, sono sicuro di avere con lui qualcosa in comune: e cioè che qualcuno ci ha permesso di sopravvivere. Qualcuno ci ha nutriti, forse anche amati, alla sua maniera, insomma si è preso cura di noi. Io ed il mio lettore o lettrice non siamo stati abbandonati. Ricevere cure ed attenzioni, fin da piccoli, soprattutto nei periodi più cruciali dello sviluppo, rappresenta la condizione irrinunciabile per poterci garantire la continuità dell’esistenza fisica e fisiologica. Ci troviamo, cioè, in uno stato di totale dipendenza.

La natura ci ha dotato di una serie di congegni automatici, che si muovono per conto loro, senza che noi facciamo alcun sforzo per comprenderli, governarli e implementarli in modo cosciente e volontario; si tratta di un equipaggiamento di automatismi utili al richiamo della fonte di accudimento. Non abbiamo scelta, o veniamo protetti, custoditi e soddisfatti nei nostri bisogni primari, oppure ritorniamo in pochissimo tempo da dove siamo venuti. Una parte di noi comincia ad intuirlo, a farsene una ragione, e così il neonato, quando diventa poco più grande, in grado ormai di relazionarsi con una certa misura di abilità comunicativa con la fonte di nutrimento che gli ha permesso di sopravvivere, ecco che, inevitabilmente, se ne innamora. Farebbe di tutto per lei, anche se in realtà lo fa per se stesso, per non perdere questo “oggetto” di prezioso nutrimento da cui suggere ricompense e riconoscimento.

Insomma, c’è una forma di sano egoismo, comune a tutti noi, e ciò non deve procurare scandalo, che abbiamo utilizzato funzionalmente, sempre per garantirci la sopravvivenza, la stabilità, la permanenza e l’aspettativa di soddisfacimento dei bisogni. Ma ora siamo diventati adulti, e siamo diventati indipendenti, soprattutto sul piano psicologico, quindi non abbiamo bisogno di sostituire quella figura investendo proiettivamente questo nostro passato affettivo sulle nuove relazioni, oppure sostituendola con legami di dipendenza verso simboli, ideologie, comportamenti tossici e nevrotici. Siamo adulti… o no?

Non è che invece, sotto sotto, la butto li, forse un po’ per provocazione, ancora siamo impauriti e angosciati di fronte alla prospettiva di perdere qualcosa che tutela la nostra stabilità e il nostro senso di sicurezza? Non è che in fondo, siamo gli stessi di sempre, e quindi abbiamo bisogno di affidarci a dei “genitori succedanei” che possono essere rintracciati in istituzioni autoritarie che ci proteggono da qualunque cosa attenti alla nostra idea di sicurezza? Abbiamo ancora bisogno, allo stesso modo di quando eravamo bambini, di approvazione, premi, riconoscimenti, gratificazioni e buoni voti? Se la risposta è si, allora abbiamo soltanto cambiato “famiglia”, facendo rimanere intatta la struttura dell’Io. Ora i nostri genitori sono altri: il datore di lavoro, il partner ecc.

E le caramelle o i giocattoli si sono trasformati in richieste di stipendio, licenze premio e quanto altro. E come i bambini siamo compiacenti al potere, pronti a fare la spia ed a tradire per ottenere più “caramelle”, a dirlo alla maestra, poi al preside, poi al capo-ufficio. E come i bambini siamo disposti a giocare a qualunque cosa ci chiedano di giocare, purchè in vista del premio finale, ma anche e soprattutto per non paventare minimamente l’ipotesi di venire disconosciuti, abbandonati, di finire out-group. La più grande paura dell’essere umano, quella di non ricevere amore e di essere abbandonato, si trasforma nella ricerca spasmodica di approvazione, fino a diventare una dipendenza che giunge a ridicolizzare la nostra dignità e il vero traguardo del divenire dell’essere.

Questa paura, magistralmente abusata e strumentalizzata dai signori del “dividi et impera”, viene impiegata per soddisfare i foschi disegni machiavellici dei manipolatori delle masse. Finchè abbiamo questa paura, sarà molto facile metterci gli uni contro gli altri ed impedire il risveglio del vero Sé e dell’autocoscienza. Con questo non voglio certo dire che tale paura non sia legittima; ella, infatti, non andrebbe nemmeno inquadrata dentro un focus di tipo morale. La natura non conosce morale, si muove secondo una legge di funzionalità adattiva, e la ricerca della fonte di nutrimento, ed il suo raggiungimento ad ogni costo, è condizione indispensabile per conservarci e riprodurre la specie. Per fortuna, però, nel caso dell’essere umano, credo proprio che esista qualcosa interiormente che lo chiama ad un livello metafisico, quindi ben oltre il limite di essere pilotato e soggiogato dalle istanze specie-specifiche di tipo animale.

Certo che, in questo caso, la paura dell’abbandono, invece di sparire, paradossalmente si amplifica. E questa paura è davvero così forte, ma così prepotente, che anche se si conosce la verità, a volte, non sempre ci si sente di affrontarla. C’è un passo, nei Vangeli, che mette in evidenza la “troppa umanità” dei discepoli di Gesù, quando Egli, inviandoli in missione evangelica, si sente chiedere da parte loro come potranno sopravvivere, cioè di cosa si ciberanno, cosa berranno, di cosa vestiranno e in quale luogo troveranno riparo. Loro, che si erano cibati del Pane della Vita, si stavano preoccupando di come o dove ristorarsi! La risposta di Gesù, a loro e, soprattutto, a noi, uomini e donne di questo tempo storico: “La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito. Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno ripostiglio né granaio, eppure Dio li nutre.

Ebbene, voi valete più degli uccelli! Chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora in più alla sua vita? Se dunque non potete fare neppure così poco, perché vi preoccupate per il resto? Guardate i gigli del campo: non lavorano e non si fanno vestiti. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua ricchezza, ha mai avuto un vestito così bello. Se dunque Dio veste così bene i fiori del campo, che oggi ci sono e il giorno dopo vengono bruciati, a maggior ragione darà un vestito a voi, gente di poca fede! Perciò non state sempre in ansia nel cercare che cosa mangerete o che cosa berrete: di tutte queste cose si preoccupano gli altri, quelli che non conoscono Dio. Ma voi avete un Padre che sa ciò di cui avete bisogno.

Cercate piuttosto il regno di Dio e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta […]” Quanto siamo lontani da questa consapevolezza e dal coraggio necessario per viverla nella concretezza quotidiana? La risposta è anche nelle vicende che tormentano il costume e il vivere sociale. E allora per ottenere questo benedetto riscatto, realizzare l’autoconsapevolezza e diventare liberi, forse non sono sufficienti certi percorsi di training promossi con slogan presi in prestito dalle televendite. O per lo meno, non lo sono se il loro paradigma è soltanto fisico e non metafisico, perché anche loro viziati dal bisogno di approvazione della “Mamma Scienza”, che decide cosa consacrare e cosa no, cosa ospitare nel suo ventre che dona la vita solo a chi compiace alle sue grazie.

Credo invece che la libertà passi attraverso la verità, e quindi mediante il coraggio di emanciparsi da questi vincoli psicologici ed affettivi che ci rendono ancora troppo minimali, esposti alla dipendenza passiva, al torpore cognitivo acritico e alla mancanza di assertività. Si tratta anche di incentivare altri strumenti di cui la natura ci ha fornito, perché se è vero che abbiamo una naturale propensione alla dipendenza dalla ricompensa o, per dirla parafrasando Eric Berne, una fame di carezze, fossero anche di disconferma e svalutanti, d’altra parte siamo anche provvisti di attitudini maggiormente proiettate verso una ricerca di stimoli da acquisire anche ad uso creativo. Sono variegate, insomma, le componenti del temperamento, ed una interessante riflessione può essere ricavata dalla teoria multidimensionale della personalità di Robert Cloninger.

Egli suddivide infatti la struttura della personalità in due sistemi che naturalmente hanno un legame di continuità: il temperamento e il carattere. Il primo è formato dai seguenti elementi:

a). Evitamento del pericolo (harm avoidance): la psicologia del bambino almeno su questo aspetto risulta semplice e a norma col principio di autoconservazione. Egli tende ad evitare di provocarsi un danno, ed appena impara che esiste un legame causale fra azione e reazione, organizzerà di proposito un comportamento congruente alle aspettative circa le conseguenze.

b). Ricerca della novità (novelty seeking): tendiamo all’esploratività, alla conoscenza, a soddisfare il bisogno di un livello ottimale, soggettivamente parlando, di un flusso di stimoli con cui entrare in contatto per disporre di novità e prevenire la routine, l’abitudine, la perdita di attenzione e di interesse.

c). Dipendenza dalla ricompensa (reward dependence) : è ciò che ha maggiormente ispirato la stesura di questo mio articolo. Si riferisce proprio alla sensibilità nel comprendere i messaggi sociali nella direzione se essi costituiscono approvazione o meno dei nostri comportamenti. È dunque una ricettività verso il feedback altrui, col fine di regolare il comportamento per renderlo consone e conforme alle richieste sociali, implicite o esplicite che siano.

d). Persistenza (persistence): qualcosa ci fa persistere nel riprodurre comportamenti già noti, resistendo al cambiamento ed estinzione degli stessi. Il secondo sistema della personalità è costituito dal carattere, il quale si fonda sui seguenti fattori: a) Autodirezionalità, b) Cooperatività, c) Autotrascendenza.

Questi termini, rispetto ai vocaboli che caratterizzano le qualità fondanti del temperamento, sembrano riferirsi alla possibilità di sovradeterminarsi rispetto alle istanze di base promosse dalla nostra natura autoconservativa. Darsi una direzione, quindi ricercare un senso oltre l’appannaggio dell’adattamento biologico, generare atteggiamenti cooperativi, riconoscersi competenze ed istanze metafisiche, ci proiettano oltre il recinto esistenziale di una mente minima, che fagocita esperienze limitate dalla dipendenza di lodi e riconoscimenti.

Possiamo, e forse dobbiamo, se vogliamo essere liberi davvero, sviluppare i punti del carattere che ci aiutano a comprendere il significato del nostro viaggio, personale e collettivo, a costruire relazioni solidali ed a frantumare gli inganni e le illusioni percettive dell’apparenza e della logica. Sono questi i punti salienti, a mio inadoperabile avviso, che possono costituire i principi cardine per una proposta di crescita personale, assumendo la consapevolezza di un compito realmente completo e responsabile.

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