Rischio, sfida, pericolo, crisi; sono tutte espressioni alle quali vengono sovente associate suggestioni semantiche negative. Nella nostra cultura tendenzialmente conservatrice, poco tollerante ai cambiamenti dei modelli sociali, scarsamente curiosa verso rivoluzioni concettuali o revisioni valoriali, l’atteggiamento esplorativo espone facilmente all’ostacolo e all’incomprensione. Il primo steccato è di origine appunto culturale, e si appalesa in frasi come “chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quello che perde ma non quello che trova”. La paura del nuovo e dell’ignoto è un virus che imbriglia il nostro slancio vitale, e la maggior parte delle volte non si può che constatare che alla base di ogni situazione di stallo c’è per l’appunto una pagina interrotta di vita. La paura di cambiare, ovvero di evolvere, di acquisire nuovi strumenti di adattamento, nuove abilità, inediti percorsi di crescita e consapevolezza, conduce ad una paralisi della propria esistenza che può non venire riconosciuta nemmeno per un relativo esteso arco temporale. La difficoltà nel riconoscerla può essere attribuita a un fenomeno di condizionamento culturale; specie se associamo la linearità dell’esistenza alla stabilità. La parola magica sulla bocca di tutti è: sistemarsi. Le aspettative che ruotano intorno a questa parola sono frutto di indottrinamenti attempati ed obsoleti, quelle stesse credenze che hanno prodotto automi umani, infelici, frustrati, inappagati… stabilmente, appunto, in concordia con il principio inculcato. Quando la routine sovrasta la dinamicità, oscurando l’orizzonte dell’oltre, negando il contatto con il proprio Sé trascendente, per fortuna scatta subito un salvavita, un automatismo interiore, un daimon secondo un accezione socratica, una sorta di alter ego parassita in virtù delle teoresi dello psicanalista Groddeck o un Super Conscio tendente al metafisico, seguendo i postulati dell’Assagioli. Da qualunque parte arrivino schemi interpretativi o indirizzi speculativi, ciò che conta è che questo fenomeno accade. Ovvero: quando siamo vinti dalla staticità, dall’abitudine, dai copioni che si ripetono, l’allarme si propaga badando bene nel farlo secondo modalità alle quali non si può non prestare attenzione. Al di là della forma con la quale si manifesta, il sistema avverte l’individuo che qualcosa lo sta deviando dal proprio percorso autentico ed originario della sua esistenza, proiettata e motivata dall’individuarsi. Quando ci dimentichiamo di noi, della nostra provenienza, ed interrompiamo il cammino esplorativo della ricerca dei nostri significati e delle nostre coordinate valoriali, il sistema interno reagisce affinchè a qualsiasi costo riprendiamo ad individuarci. In pratica, come si suol dire, entriamo in “crisi”.
La psicologia dello sviluppo ci insegna che le crisi sono tappe pressoché obbligate insite nell’evoluzione, nella sua prospettiva life span, e che il superamento di ciascuna di esse non solo non fa perdere all’essere umano la sua attuale identità, ma lo arricchisce ulteriormente di preziosi strumenti e di maturità interiore, espandone lo spessore psichico, intellettuale e spirituale. Come mostra la carta epigenetica di Erik Erikson, compilata dallo stesso a metà degli anni Sessanta, il ciclo della vita è caratterizzato da una successione di fasi, che lo stesso Erikson denominò “crisi psicosociali”, mettendone in evidenza l’influenza subita dalle contingenze storiche ed ambientali di una data cornice culturale. Ciascuno di questi passaggi può essere considerato come una petit mort, che rappresenta però un apertura verso la vita, da motivare e significare ulteriormente di valori positivi costruiti con la propria esperienza ei propri interessi.
Ed allora, proviamo a colorare con un nuovo sguardo certe parole sigillate interiormente come spauracchio circa un possibile cambiamento. Conosco troppe persone che vivono sensi di colpa perché hanno capito quali sono i loro veri bisogni, e quale prospettiva di novità si apre loro dal momento che si danno la libertà ed il potere di accogliersi, accettarsi e stimarsi attribuendosi il valore che hanno sempre avuto. Purtroppo certi fantasmi hanno detto loro che “così non si fa”, che se vi vive una vita propria si è egoisti, non se ne ha il diritto, e che solo se si compiace si può ricevere affetto e gratitudine. L’orrore del vuoto affettivo si adombra minaccioso, con tutto il peso del suo ricatto, e della sua forza nulla, alimentata soltanto dalle paure e dalla sottostima delle proprie possibilità, da uno sguardo reso miope verso la propria meraviglia. Mi propongo quindi di aiutare l’altro demolendo insieme questi fantasmi, sorridendo alla “crisi” non come avvenimento catastrofico ma come istanza di una caos rigenerante, dentro il cui orizzonte concettuale, parole come rischio, sfida, pericolo, non suonino sinistre e sregolate, ma come vocaboli coraggiosi che ci aiutano ad assumerci un senso di responsabilità che coincide col senso della vita stessa.
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