Essere counselor a testa in giù. Riscoprire l'alieno dentro di noi

Inviato da Nuccio Salis

Jostein GaarderVerso la fine degli anni Novanta fui avvinto dalla lettura di un libro scritto dal noto filosofo norvegese Jostein Gaarder, in Italia tradotto col titolo “C’è nessuno?”. Mi ricordo che il protagonista principale era un bambino che, durante la notte, affacciandosi alla finestra della sua casa, notò che qualcuno stava appeso all’albero. Spinto dalla curiosità nel capire chi fosse, il bambino si avvicinò all’albero scoprendo nientemeno che non si trattava di una creatura umana ma di un extraterrestre. Questo penzolava da un ramo col capo all’ingiù, e da quella posizione intrattenne una conversazione col bambino di cui non posso certo ricordare ogni particolare. Ciò che però mi ricordo è la suggestione impressa dall’autore attraverso questa immagine del conversare con qualcuno che osserva il mondo da una posizione capovolta rispetto al suo interlocutore. Un efficace stratagemma vincente dal punto di vista letterario. Un’ icona allegorica che mi ritorna molto utile oggi, alla luce delle conoscenze e della professione di counseling che esercito.

Il bambino protagonista della breve storia, per nulla impaurito dalla natura di quell’atipico incontro, si ritrovava, invece, del tutto eccitato e disincantato, ad interrogare l’alieno su una serie di dubbi e curiosità che il bambino portava dentro se. Ed ecco che il mistero dell’esistenza, diffusa in tutto il cosmo, sollecita domande sul senso e la natura del proprio vivere, del proprio semplicemente esserci; sulla direzione ed il significato del proprio percorso. L’aspetto che più mi colpisce è come le nostre impressioni soggettive, o le nostre risposte personali che ciascuno ricava da se sulla base dei propri schemi valutativi, possano essere confrontate con maggiore apertura proprio da chi assume rispetto a noi una visione speculare alla nostra abituale e collaudata rappresentazione della realtà. Permetterci questa esperienza equivale a riconoscere nell’altro una dimensione di valore. E per quanto riguarda noi significa concepirci come esseri in divenire, autodiretti in un mutevole cammino dentro cui cogliamo la necessità di modificare e trasformare le nostre strutture, percependone con maturità la ruggine obsolescente dell’abitudine e della lineare staticità di falsi valori come ad esempio lo status o la compiacenza sociale.

L’incontro fra l’umano e l’alieno si ammanta di magia perché la loro reciproca diversità non è percepita come una disgregazione frammentata fra due elementi non conciliabili, quanto invece viene investita di un costrutto percettivo che ne esalta la dimensione unitaria e globale, cioè l’aspetto che li accomuna: il fatto di essere entrambe creature dell’Intelligenza Cosmica. D’altro canto, fu proprio il maestro Eric Berne ad utilizzare la metafora del “pensiero marziano”. Osservare l’altro, senza inferirvi alcuna soggettiva e relativa interpretazione, significa sviluppare una straordinaria capacità di accantonare temporaneamente i modelli di giudizio e di misura delle cose che, spesso e volentieri, si manifestano in termini di concetti dicotomici coi quali si attribuisce valore ai fenomeni della realtà. Chi vi riesce, fra esseri umani, a fare questo? Un marziano, appunto. Un ipotetico alieno che, arrivando sulla Terra, non può che limitarsi ad osservarci, perché per lui non possono avere nessun significato le taglie dei nostri indumenti o il colore dei nostri capelli. Il suo sguardo puro ed incontaminato da schemi interpretativi pregressi, libero da indottrinamenti e condizionamenti morali, si poserà su ciascuna cosa e persona col semplice e unico intento di assimilare informazioni. Un counselor dev’essere come un marziano. In ogni caso, non proprio di questo mondo.

Egli deve accogliere il suo prossimo a testa in giù, restando nella cornice romantico letteraria immaginata da Gaarder. Magari anche ricordarsi che oltre ad essere l’alieno sull’albero deve anche prendersi cura della sua parte bambina. Non a caso sono proprio un bambino ed un extraterrestre a stringere un rapporto di condivisione, nel tentativo di dare luogo a un paradigma di linguaggio convergente, pur sempre aperto e stimolante. Il bambino, come l’immagine dell’essere di un altro mondo, rappresenta la neutralità di uno sguardo affamato di stimoli, accettante ed accogliente senza alcun vincolo di condizione preliminare.

Per giunta, solo se diventiamo come bambini saremo degni di appartenere al Regno dei Cieli.

Unitamente a questo, l’atteggiamento del non giudicare vi si coniuga in modo assolutamente congruente e sensato. Allora il punto di partenza e di arrivo coincidono: accogliere l’altro con la consapevolezza che l’apertura verso di lui potrà far maturare un’esperienza di crescita e rinnovamento dopo la quale non saremo più gli stessi. Abbiamo dunque un arduo esame da superare: quanto siamo disposti a destrutturarci e dimenticare temporaneamente il profilo della nostra identita?

La risposta a questa domanda costituisce Il banco di prova di una buona qualità nella sospensione del giudizio. E allora tanto più ci sentiamo propensi all’instaurare relazioni autentiche e trasparenti, cominciando da noi stessi, quanto più ci scopriremo stupiti ed incantati di fronte alla più grande delle meraviglie: la ricchezza interiore di ciascun essere umano. Quindi consapevoli dell’incommensurabile responsabilità che ci assumiamo nell’essere per un certo periodo a fianco del portatore di bisogno, per guidarlo alla ricerca ed alla scoperta della sua meraviglia, poiché “Dov’è il tuo tesoro lì è il tuo cuore” [Gesù Cristo (Mt. 6,21)]

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