Verbalizzazione ed empatia. Sintonizzarsi sulle tipologie di espressione emozionale del cliente

Inviato da Nuccio Salis

specchio distortoUno dei compiti più impegnativi durante il colloquio di aiuto è quello di chiarire i contenuti dell’esperienza narrativa del cliente. È frequentemente comprovato che, per il fatto di essere portatori di un’esigenza di ascolto e sostegno comprensivo, non si è quasi mai del tutto capaci di riportare fatti e vissuti come si presentano nella loro forma oggettiva, ammesso che la complessità degli eventi possa concederne una. Resta di fatto che rimane assodata la difficoltà di presentare le proprie istanze secondo una rappresentazione ampiamente condivisibile, non viziata da elementi percettivi distorti e da una immancabile visione egocentrica circa le personali vicissitudini anche in termini di causa-effetto. La contaminazione della neutralità con la quale si dovrebbero riportare gli accadimenti, diventa puntualmente l’epicentro dell’ostacolo in merito alla finalità cardine che si intende in genere condividere e raggiungere col cliente: promuoverne cioè l’autonomia e potenziarne l’assunzione costruttiva delle sue responsabilità.

Ripulire lo specchio attraverso cui il cliente assurge la sua visione di mondo, si presenta subito al professionista dell’ascolto come mezzo e fine da sviluppare al servizio dello stesso appellante.

Di certo, preparati a questo ricorrente aspetto, non ci permettiamo di accomodarci nell’illusione che la trama dell’esistenza che l’altro porta alla nostra conoscenza sia una chiara ed ordinata opera di ricostruzione fedele della quotidianità vissuta e percepita dal nostro interlocutore. Al contrario, si mostrerà invece come una sorta di paccottiglia biografica piena di omissioni, incompletezze, ribaltamenti e rovesciamenti di significato; sarà pregna di soggettivismo, di incongruenze, di aspetti poco chiari ed indefiniti. Spetta a noi, fin dalla delicata fase di collaudo ed avvio della relazione, ricorrere a strumenti e strategie in nostro possesso per facilitare una progressiva delucidazione dei contenuti presentati dal cliente. La difficoltà di questo percorso è molto spesso esasperata dall’altro aspetto che accompagna la narrazione dei contenuti, ovvero le modalità attraverso cui questi sono espressi nel profilo comunicativo-emozionale in seno all’interlocutore. L’ascolto comprensivo, con il suo focus allargato su contenuti e processi comunicativi, tramite cui si cerca di cogliere nella relazione il COME ed il COSA, implica l’orientamento di un’attenzione complessiva, empaticamente globale e matura. Ma proprio come accade a livello dei contenuti, anche le manifestazioni emozionali del richiedente sostegno, parallelamente alle difficoltà di esprimere elementi narrativi congruenti, assumono una dimensione altrettanto legata agli aspetti di confusione e discrepanza in seno all’esperienza elaborata dal cliente. È quasi sempre il modo con cui vengono narrate le cose, ad influenzare sulle stesse una certa qualità del significato, a richiamare un piano condiviso di attribuzione di importanza o livello di gravità. Potremo assistere a modalità espressive di genere affettivo-emozionale che vanno dall’enfasi, all’agitazione catastrofica, all’ansietà, all’incupimento, all’atonia affettiva fino ad arrivare a una sorta di asetticittà nell’espressione delle tonalità emozionali.

Al di la della variegata gamma di affezione sentita ed esperita nel contesto, sia essa più o meno congruente coi contenuti percepiti o reali ai quali si associano, le emozioni manifeste ci occorrono poiché ci forniscono una mole di informazioni preziosa circa il vissuto dell’altro anche nella dimensione relazionale del qui ed ora.

Le complicazioni cominciano a generarsi in forma più evidente laddove ci troviamo di fronte interlocutori che si esprimono con un povero vocabolario emozionale, e che aggiungono, oltre alla scarsità o mancanza di parole “emotive”, un generale comportamento inespressivo e rigido. È come se vi fosse una sorta di blocco o paralisi dei sentimenti, e non si attivasse dunque un naturale processo elaborativo nella sfera profonda del sentire. Questo complesso di anaffettività comunicata attraverso immobilità espressivo-facciale, rigidità posturale, qualità vocale neutra e lineare nel tono e nella sequenza, può favorire l’impressione di trovarsi di fronte ad una persona “fredda”, ingenuamente confusa addirittura con una personalità forte e sicura di se. Come agenti del qui ed ora, disinvestiti dunque di un ruolo di ricercatori di tale fonte motivazionale e di conseguenza accompagnatori di un percorso di indagine retrospettiva, ci chiediamo piuttosto a quali strumenti ricorrere per creare il “cortocircuito” contenuti-emozioni, al fine di restituire al cliente una visione globale affiancata ad un vissuto che sia per lui una pregiata risorsa di espansione della propria consapevolezza. Anche le emozioni, infatti, determinano un punto di vista sul mondo, e al di la del discorso in merito al rispetto e all’accettazione incondizionata che offriamo verso la diversità molteplice delle loro espressioni, dobbiamo in un certo senso credere che l’unità integrativa fra esperienza narrante e forma del vissuto stabiliscano un alleanza che si ripercuote favorevolmente sul cliente come su ciascuno di noi, in termini di aumento della nostra conoscenza sia sotto l’aspetto dei punti di vulnerabilità che su quelli di forza. Ciò fa crescere in noi la capacità di scegliere e pianificare sulla base di bisogni e motivazioni centrati sulla nostra autentica essenza, quindi sani e congruenti.

Ammettendo ,dunque, l’importanza assunta dalla necessità di esperire emozioni congruenti e da identificare come portatrici di bisogni veri e disconosciuti, diventa d’obbligo l’aiuto verso chi non è per varie ragioni dotato di un ampia semantica delle emozioni.

Dobbiamo ora disporre di strumenti per stimolare o accelerare nell’altro l’esperienza del contatto emozionale che preveda il riconoscimento preciso dell’emozione, ivi associate le sue sfumate tonalità, il bisogno intrinseco di cui sono portatori e in ultima istanza la possibilità di pianificare azioni efficaci dirette al soddisfacimento dei bisogni medesimi ed al raggiungimento di una dimensione di gratificazione, sia in termini intrapsichici che interpsichici.

Tali principali strumenti che si apprestano all’espletamento di tali obiettivi sono la verbalizzazione e l’empatia. La prima è una delle tecniche non direttive inclusa nell’approccio rogersiano dell’ascolto attivo. Attraverso di essa ci proponiamo di rispecchiare le emozioni dell’altro, seguendo il paradigma non direttivo della restituzione del mondo esperienziale che l’altro ci propone. L’empatia è collegata alla capacità compenetrativa del mondo esperienziale dell’altro. Essa viene suddivisa in 3 livelli che danno l’idea di un gradiente (seppure adimensionale) che trova la sua misura nella profondità del saper percepire e partecipare ai vissuti che l’altro avverte dentro di se. Ciascuno di questi livelli, oltre a rappresentare una certa intensità del “sentire l’altro dal suo punto di vista affettivo”, descrive anche la scelta meramente tecnica dell’applicare strategicamente l’una piuttosto che l’altra. Poiché nessuna è migliore o peggiore dell’altra, ciò che cambia è il loro rispettivo impatto e il loro differente margine di rischio. Poco più avanti cercherò di spiegare a parole mie questo aspetto.

Esiste dunque una empatia denominata ridotta, in cui restituiamo meno significati o meno parole esperienziali rispetto alla cornice affettivo-emotiva descritta dal cliente. Così come vi è una empatia detta di primo livello, grazie a cui ci sintonizziamo pari pari con ciò che sente l’altro e ne verbalizziamo fedelmente i contenuti emozionali, riformulando lo stesso registro del cliente. In ultimo è presente anche una forma di empatia avanzata, tramite cui si accoglie l’altro con particolare cura e premura, restituendo significati esperienziali che vanno oltre la struttura di senso riportata dal cliente; ed è per questa ragione che tale restituzione richiede abilità e congruenza temporale in merito al consolidamento della fiducia nel rapporto counselor-cliente.

La disamina dialettica di tale argomento può essere a mio umile avviso ricondotta alle 4 tipologie di orientamento delle modalità del rapporto emozionale che i clienti vivono. Ciascuna di queste modalità servirà a indicare spontaneamente la direzione entro cui rendiamo applicabile e percorribile il nostro intervento. L’elenco delle 4 tipologie è il seguente:

A; Clienti ad orientamento emotivo senso-motorio: Essi esperiscono con enfasi l’emozione e la drammatizzano, immedesimandosene in modo intenso. Non la nominano, la vivono. Li potremo osservare piangere, ad esempio, senza mai nominare parole presumibilmente corrispondenti quali tristezza, angoscia, frustrazione.

B; Clienti ad orientamento emotivo concreto: L’emozione viene facilmente etichettata e riconosciuta, sapientemente incasellata e nominata. Ci sono le basi per ulteriori esplorazioni.

C; Clienti ad orientamento emotivo formale-operazionale astratto: A questo livello, il cliente “ragiona” sulle proprie emozioni, le dipana e le sviscera cercando di disvelarne la struttura ed il significato. Un processo di “meta-emozione” che, se condotto squisitamente con intento analitico, potrebbe raffreddare il mondo affettivo-esperienziale intrapsichico, e agevolare in buona sostanza una fuga dalla sfera intima del proprio sentire. In pratica si agisce secondo una intellettualità reattiva che allontana dal proprio mondo emozionale.

D; Clienti ad orientamento emotivo dialettico/sistemico astratto: La qualità dell’astratto, come nella tipologia seguente, favorisce una visione decentrata dal vissuto dello stato emozionale, anche se in questo caso la visione di se e del proprio ventaglio emozionale è maggiormente pensabile nell’ambito del possibile e della varietà dei contesti(es: Sono triste perché mi è successo X, sono anche soddisfatto per via di Y).

 

Giunti a questo punto, una legittima domanda da formularsi può essere: “Quale empatia per quale cliente?” I clienti del livello A potrebbero beneficiare maggiormente di un rimando empatico che non restituisca del tutto la loro enfasi espressiva, poiché questo ne alimenterebbe a circolo il loro estrinsecarsi; mentre in tal caso, il ridimensionamento del vissuto che può scegliere anche di farsi narrante, ed assumere una ulteriore valenza comunicativa efficace, avrebbe bisogno di un ritorno ridotto in termini emozionali, utile anche all’operatore per non essere invasato dagli agiti affettivi del portatore di bisogni.

Ai clienti del livello B, invece, può essere sufficiente un fedele rispecchiamento dei contenuti emozionali, mediante una scala empatica intermedia o di primo livello. Una verbalizzazione sinonimica congiunta ad una sintonizzazione empatica di congruente intensità, può essere il viatico per creare un clima di accoglienza ed accettazione che apra ad ulteriori percorsi di autoesplorazione.

I cerebrali clienti del livello C e D, seppur con le loro sfumate differenze, potrebbero trovare vantaggio in una restituzione verbale di tipo optativa, in cui cerchiamo, partendo naturalmente dalle nostre impressioni soggettive, di far esplorare al cliente ulteriori contenuti emozionali da assumere però nel pieno della loro coloritura affettiva. Possiamo permetterci di fare questo una volta consolidato il rapporto ed aver accertato, in primo luogo a noi stessi, l’uso di un livello particolarmente accurato del nostro sentire empatico.

Ne consegue, allora, a fronte di tali spiegazioni, la necessità di fare riferimento a un attrezzatura di svariate misure, in merito alle dimensioni degli strumenti di cui disponiamo. Adeguandoci alla tipologia del cliente potremo così rispettare l’approccio centrato sulla persona ed agire sulla base di un incontro offerto dalle caratteristiche dell’altro e dalle nostre risorse, programmando in prospettiva interventi sempre più raffinati ed efficaci.

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