INDIVIDUALITA' E SOCIALITA': Le ragioni di Diogene

Inviato da Nuccio Salis

DiogeneLa condizione di benessere della persona assume spesso il significato di integrità, equilibrio, armonia e sintesi. La tendenza all’omeostasi, nel senso olistico del vocabolo, è considerata come il processo naturale e dinamico che sussiste allo scopo di raggiungere o conservare le proprie strutture biopsichiche. Sembra esistere un’idea di necessità di equilibrio, nella fattispecie, in merito alla relazione fra dimensione individuale e dimensione sociale. Fortificare l’Io pare uno dei traguardi verso cui si accompagna il fruitore della consulenza di sostegno. Termini come autotrascendenza, consapevolezza di sé, potenziarsi nell’autostima, motivarsi per l’azione, prendersi cura di se stessi o altro ancora, si riferiscono indubbiamente alla necessità di elevare il proprio repertorio di risorse e punti di forza, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Tutto questo ha il significato anche di allenare la persona a mettersi al centro della propria stima ed attenzione, a sviluppare verso se stessa uno sguardo d’amore, nonché a trasformare questo nuovo ordine di idee e sentimenti in veri e propri comportamenti che trasferiscano sul piano della realtà tangibile ed osservabile gli atteggiamenti di cura verso se stessi.

Tale area di interesse attiene evidentemente a quella dell’Io. Quell’Io capace di strutturare un linguaggio che include “Io sono”, “Io posso”, “Io desidero”, “Io sento”, “Io faccio”; in pratica di articolare una serie di interessi che partecipano dei diversi livelli della realtà ontologica dell’essere umano. Portando alle estreme conseguenze questa prospettiva, emergerebbe il rafforzamento ipertrofico dell’Io che, se in grado efficacemente di autovalidarsi, si affermerebbe scavalcando la legittimità dei bisogni sociali. Tale possibilità, infatti, viene sapientemente prevenuta da una sorta di bilancia immaginaria che prevede la costruzione di un Io che si sviluppa su due piani: quello della individualità e quello della socialità. Sembra decisamente essere diffusa e condivisa, in psicologia, l’idea che l’ago della bilancia non deve avere troppo margine di pendenza né verso il piatto del riconoscimento dei bisogni dell’Io e nemmeno per eccesso verso il piatto su cui poggiano i diritti e le istanze della collettività. L’intero paradigma antropologico sull’idea dell’altro, nonché il conseguente impianto teoretico con annessa pratica terapeutica, punta a raggiungere una sorta di equilibrio ideale che si presenta come una soluzione compromissoria fra la necessità emancipativa dell’Io e la sua capacità di porsi dentro una rete di relazioni dentro cui interagire con le esigenze del prossimo. Questo tentativo di operare un piano di sintesi sembra volere, in primo luogo, raggiungere una rispettosa sottolineatura del modello aristotelico “animale sociale”, e in secondo luogo realizzare una prospettiva concreta di integrazione fra bisogni individuali e bisogni sociali, perché tali parti non confliggano distruttivamente fra loro.

Sembra non esserci proprio nessuna controversia su questo aspetto. Ad eccezione di alcune “scuole” di filosofia (vedi per esempio il cinismo), vi è una sostanziale convergenza circa l’idea di formare l’ “individualità a carattere sociale”. Perfino Socrate, che col motto dell’Oracolo di Delfi ci ha insegnato l’importanza indiscutibile di sviluppare la propria individualità, generava il modello maieutico nel quadro di un indissolubile legame fra scoperta di sé e necessità di mettersi al servizio della comunità. L’Io che stimola Socrate ha dunque natura autentica e al tempo stesso politica, ovvero mette la ricerca della verità come cammino di liberazione dell’intera polis. Elemento privato ed elemento pubblico si congiungono: emerge così nell’uomo, oltre al diritto di essere se stesso, il dovere di servire la causa pubblica. L’uomo diventa cittadino. Tale status assume, secondo questa ottica, un valore di prioritaria importanza; è da considerarsi una promozione.

L’importanza di individuarsi, che troviamo essere uno dei pilastri portanti anche nella teoria junghiana, sembra non abbia potuto fare a meno di essere presente fra, da una parte, le corpose riflessioni sulla necessità di autenticarsi e, dall’altra, l’ accorpamento fra individualità e l’influenza che gli archetipi dell’inconscio collettivo hanno sul medesimo principio individuationis di schopenhaueriana memoria.

La formula maggiormente rappresentativa circa l’intimo rapporto fra dimensione individuale e dimensione collettiva, la si reperisce presso i fondamenti teorici del filosofo della comunicazione Martin Buber, che asseriva l’interdipendenza fra l’Io e il Tu, descritti come legati ed interfacciati in prospettiva di un reciproco scambio in grado di costruire rispettive sovrastrutture di significati per entrambe le parti coinvolte.

Presso altri modelli di interpretazione, soprattutto associati alle teorie del Sé, si trovano descrizioni che non potendo prescindere attualmente da una lettura multifattoriale sul fenomeno Sé, mettono in evidenza come la realtà molteplice del Sé, sia costituita da un mosaico di nuclei più piccoli di Sé, fra i quali emerge con particolare rilevanza il tassello del Sé sociale. Quindi, secondo questa prospettiva, brillantemente spiegata sotto la metafora della “sinfonia”, da un grande ricercatore umanista come Pio Scilligo, emerge la visione di un continuo indivisibile rapporto fra l’elemento ideografico della personalità ed il suo prodigarsi in senso morale verso l’impegno comunitario.

Condurre il cliente, in sede del rapporto di counseling, a sviluppare la responsabilità sociale in vista della crescita di una personalità matura, consapevole ed integrata, è uno dei compiti principali che lo storico psicologo clinico Rollo May indica per ogni professionista dell’aiuto.

Ora, a fronte di tutti questi precedenti, mi chiedo se questo compito sia indiscutibile a priori, oppure rimane importante verificare insieme al cliente ciò che lui veramente vuole, persegue, ed ha bisogno sulla base delle sue reali inclinazioni ed obiettivi personali. È legittimo chiedersi questo? Oppure, sulla base di tutte queste autorevolissime teorie, mi trovo costretto a guardare al cliente come ad un individuo da “trasformare” a tutti i costi secondo un ottica di responsabilità sociale?! È possibile svincolarsi da un modello antropologico e sociale che, se portato alle estreme conseguenze potrebbe in realtà mascherare la sovrapposizione del modello sociale ”eticamente corretto” condiviso dal counselor su quello del cliente? In altre parole, fino a quanto possiamo essere disposti a sospendere sul serio le nostre rassicuranti sovrastrutture, ed accogliere incondizionatamente un cliente che si presenta a noi nudo dentro una botte? Quanti di noi non farebbero subito l’invio ad uno psichiatra dell’emergenza?

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