Per un'etica condivisa


svolta_linguisticaOggi è ormai comunemente accettato in ambito filosofico, dopo la così detta “svolta linguistica” (linguistic turn) che non sia corretto discorrere di temi etici - o bioetici o metaetici - senza tener conto del contesto storico-culturale, quindi della comunità linguistica nella quale discorrono e agiscono i singoli soggetti dialoganti o disputanti sui suddetti temi. E, dal momento che nessun animale aristotelicamente politico, parlante e razionale può (o dovrebbe) considerarsi estraneo al discorso sull’etica, nessuno oggi può (o dovrebbe) considerarsi estraneo all’etica del discorso, o dell’argomentazione. Ma che cosa significa l’espressione “etica del discorso o dell’argomentazione”?

Per Karl-Otto Apel, ad esempio, il discorso argomentativo è valido quando il soggetto che argomenta si considera appartenente a una comunità ideale di cui riconosce le norme che regolano la comunicazione intersoggettiva. Un’argomentazione, per essere razionalmente valida, presuppone alcune pretese universali di validità:

1) giustezza o correttezza (Richtigkeit) del discorso stesso come atto di interazione comunicativa: ogni soggetto deve rispettare le regole del contesto in cui avviene l’argomentazione; ad esempio, ascoltare le tesi dell’interlocutore e modificare le proprie se inadeguate;

2) verità (Wahreit): ogni soggetto deve formulare enunciati che siano in linea di principio universalmente condivisibili;

3) veridicità (Wahrhaftigkeit): ogni soggetto deve esprimersi in modo autentico, veritiero e convinto di quello che dice;

4) comprensibilità (Verstandlichkeit): ogni soggetto deve parlare in modo linguisticamente corretto, cioè rispettare le regole grammaticali e il senso esatto delle parole adoperate.

Dovrebbe risultare evidente che queste quattro regole di base per lo svolgimento di un dialogo corretto non riguardano solo la teoria ma anche la pratica, non solo quindi il pensare ma anche l’agire: esse implicano infatti l’uguale diritto di tutti i soggetti appartenenti a una comunità linguistica di prendere parte alla discussione sui temi etici e, infine, di agire responsabilmente e nel rispetto delle posizioni altrui.

Questo può verificarsi in un contesto discorsivo ideale, cioè in una comunità in cui a tutti i suoi componenti venga riconosciuta una pari dignità; ma la società in cui viviamo non è esattamente un modello di giustizia e di democrazia compiuta, anzi, il mondo della vita in cui agiscono i soggetti che parlano e ascoltano è minacciato, secondo Jurgen Habermas, dalla così detta modernizzazione o razionalizzazione capitalistica, che interviene e interferisce con i suoi potenti mezzi di controllo monetario, politico e amministrativo (e anche mediatico) nel “mondo della vita” in cui solamente può esplicarsi l’agire comunicativo intersoggettivo orientato ai valori realmente vissuti da ciascuno in modo spontaneo, immediato e naturale. Naturale?

Ma è ancora possibile parlare di principi etici universalmente ed eternamente validi, fondati su di una natura umana anch’essa data una volta per sempre e immutabile nei suoi tratti fondamentali, in un mondo sempre più innaturale, in continua evoluzione (o involuzione), dominato dalla tecnica in un Terzo Millennio inaugurato sotto l’insegna della guerra preventiva e sotto l’incubo del terrorismo globale? E’ pur vero che oggi più che mai sarebbe il caso di valorizzare le massime universalistiche della ragione pratica di Kant e il suo progetto Per una pace perpetua (1796), ma è anche vero che il tanto sperato – e invocato – nuovo ordine mondiale è rinviato a data da destinarsi, dal momento che, esaurito il conflitto ideologico ed economico tra Est e Ovest che ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso con la vittoria globale dell’economia di mercato, il conflitto (definito da alcuni storici apocalittici “scontro di civiltà”) è ora tra il progredito Nord e l’arretrato Sud del mondo, e nessuno ha idea di come e quando finirà.

E, se questo è il quadro, si comprende anche l’attualità e la fortuna dei discorsi sull’etica e sul destino dell’umanità. Ad esempio, Hans Jonas, nel suo Principio responsabilità, ha parlato di “euristica della paura” per far comprendere che è necessario rendersi conto dei pericoli incombenti se si vuol correre ai ripari e approntare le difese finché siamo in tempo: “Finché il pericolo è sconosciuto non si sa cosa ci sia da salvaguardare e perché. Il saperlo scaturisce dalla cognizione di ciò che bisogna evitare.”

Quindi la prima domanda da porre è: che cosa dobbiamo evitare? E la seconda: possiamo evitarlo? Ora quello che dobbiamo evitare, se siamo esseri umani responsabili, è né più né meno che la distruzione dell’umanità da parte dell’uomo medesimo. Ma possiamo evitarlo? Lo potremo se siamo persuasi che l’essere debba prevalere sul nulla, che è come dire che la vita debba vincere sulla morte. L’essere come vita, per Jonas, è dunque un bene in sé, e in quanto tale va salvaguardato, affermato e difeso contro il male della morte e del nulla.

Se dunque possiamo ancora evitare il male, allora abbiamo il dovere di evitarlo. Ma davvero possiamo evitarlo? Se perdessimo anche la speranza di vincere il male che è in noi e fuori di noi saremmo veramente perduti. “L’importante è imparare a sperare”, afferma Ernst Bloch nel suo Principio speranza. Che cos’è la speranza per Bloch? E’ un affetto espansivo che porta gli uomini ad aprirsi gli uni agli altri invece che a chiudersi in sé stessi, è un movente che li spinge a migliorare, a progettare un futuro più umano, anzi, finalmente umano, dal momento che l’uomo non si è ancora riappropriato di sé stesso e non ha ancora attuato tutte le sue potenzialità.

Tra queste, fondamentale, quella di anticipare, sia pure nell’immaginazione e nel desiderio, un mondo non ancora presente ma che viene percepito come veramente umano. In questa prospettiva, la stessa materia non è pensata inerte, sorda e soltanto passiva, ma anch’essa in divenire, non meccanica ma dinamica forza vitale, espansiva e produttrice di nuove forme. Anche la materia, quindi, per Bloch, partecipa all’ontologia del non-ancora. Ma qual è la meta finale di questo universale processo storico e cosmico?

E’ quella terra promessa sempre sognata e non ancora raggiunta che consiste nell’unità dell’uomo con sé stesso, con i suoi simili e con la natura. Si tratta di un processo aperto a cui noi tutti possiamo partecipare, ognuno con la sua propria fisionomia, libertà e creatività. Utopia? Certo, utopia. Ma che cosa sarebbe mai un mondo senza più utopie?

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