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A COLAZIONE CON SOCRATE. La filosofia può essere una risorsa per il problem-solving?

Inviato da Nuccio Salis

bere problem solving

La ricerca di soluzioni ai problemi è forse l’attività che per eccellenza impegna l’individuo umano nel corso della sua quotidianità e quindi durante il lungo corso della sua stessa esistenza. Si potrebbe dunque approssimare che, per estensione e sovrapposizione, il tempo stesso del divenire umano, sia nella sua espressione ontogenetica che filogenetica, si manifesta come una biografia che coincide con la generazione e la risoluzione di problemi.

La natura di un problema può riferirsi a una molteplicità di strutture e dimensioni che investono svariate e numerose categorie e tipologie problematiche. Esso può essere distinto inoltre per livelli diversi di coinvolgimento intellettivo, motivazionale ed emozionale, e dunque per la misura con cui ci mette in stallo e ci sollecita a ricercare vie per reagire e superare il problema medesimo.

 

La definizione dello stesso, sotto il profilo strutturale e anche funzionale, è da ricercarsi comunque in quel contenitore elaborativo che processa gli input dell’esperienza. Pertanto, la sostanza costitutiva di un problema abita nell’attività rappresentativa di ciascuno di noi. Ragion per cui, il percorso che prevede il delinearsi di un impegno volto alla soluzione di un problema, tiene necessariamente conto dei costrutti e delle rappresentazioni di senso che ogni persona attribuisce al proprio presente e alla sua idea di divenire.

Questo aspetto è fondamentale quando ci si propone come professionista che svolge mansioni di aiuto alla persona. È sempre notevole il rischio di sovrapporre la propria visione di mondo a chi sta ricercando il proprio orizzonte di significati.

Per questo ordine di ragioni, la cornice di azione dentro cui agisce il counselor, si conforma come un territorio dai confini piuttosto incerti e sfumati. L’incertezza avvertita come disorientante, da parte dell’appellante nella relazione di aiuto, è soggetta ad un processo in cui si cerca di darle ordine, senso e direzione, purchè condivisi come elementi compatibili con il modello esperienziale della persona che interagisce con l’esperto. In pratica, la struttura problemica è plasmata mediante modelli che se da una parte prevedono il ricorso alle competenze specialistiche del mestiere, al tempo stesso considerano l’apertura  al complesso mondo del sentire e dell’intelligere che caratterizzano la persona alla ricerca di sé.

È fondamentale sottolineare questo aspetto, perché lo sviluppo concettuale e l’esposizione scientifica nella descrizione dell’oggetto ‘problema’, non si riduca a uno sterile corollario di soluzioni precotte o ad un ricettario di indicazioni inadeguate alla storia di ciascuno di noi.

Assumere il problem-solving come oggetto di indagine gnoseologica, non può dunque prescindere da un’immancabile sottolineatura al valore della singolarità della persona. Saranno le coordinate storiche, esperienziali e soggettive dell’individuo, ad impegnare un comune impegno negoziatore per la ricerca di quelle soluzioni che ben si coniugano con l’alterità proposta da ciascuno di noi come protagonista e ri-costruttore di senso.

Fondata questa irrinunciabile premessa, l’impegno dialettico che ha condotto alla definizione di problem-solving è ben noto fin dall’antichità. L’umanità ha sempre avuto a che fare con la generazione ed il fronteggiamento dei problemi. Ogni epoca fornisce il suo specifico catalogo, in funzione delle domande, dei bisogni e delle contingenze storiche che vivacizzano le dinamiche della convivenza fra umani e degli stessi con l’ambiente ospitante.

Le riflessioni sui processi riguardanti la natura dei problemi sono perciò molto remote, ed i filosofi non hanno certo potuto mancare ad assumere a loro oggetto di interesse un tema così immenso e rilevante. D’altra parte, in filosofia, l’espressione stessa “problematizzare” è declinata secondo la positiva accezione del saper anzitutto riconoscere una questione, o darle quel potenziale connettivo nell’ampio dibattito umano, a cui magari non era stato ancora riservata la meritevole collocazione. Pertanto, come ci insegna una certa impostazione filosofica, il problema non è sempre un evento frustrante che ci consegna alla rassegnazione e al disagio, ma è anche la possibilità di aprire procedure analitiche e concettuali in merito a quali domande siano contenute in un problema, e di quali istanze ed eventuali nuovi bisogni da soddisfare sia esso portatore.

Il noto motto di Virgilio ‘Facer de necessitate, virtute’, è spesso utilizzato come fondamento ispiratore per spiegare come la comparsa di un problema sia anche occasione preziosa di apprendimento e consolidamento di abilità utili per il proprio bagaglio di life skills, da investire per un migliore risposta adattiva e plastica di fronte ai bisogni che la vita stessa ci ridefinisce e ci riconsegna sotto nuovi aspetti.

Pertanto, ove vi sono dubbi, ostacoli, scelte da operare, riflessioni da compiere, ipotesi da valutare e percorsi da considerare, si configura il problema, con tutto il suo carico di domande e incertezze da contemplare. È questo, tuttavia, il punto di partenza per incaricare se stessi verso nuovi traguardi e conquiste dell’essere. Dopotutto è proprio ciò che la filosofia cerca di insegnarci da sempre.

Nel pensiero di Charles Sanders Peirce (1839 – 1914), per esempio, celebre fondatore dell’indirizzo pragmatista, vi sono depositati importanti messaggi anche per noi odierni. A parte le sue intuizioni che anticipavano la nascita della psicologia culturale, che utilizza come piattaforma dei suoi  principali assunti la capacità della mente di ricostruire e ridelineare il campo dell’esperienza dopo aver raccolto e registrato i dati di senso, e quindi di programmare un’azione ricostruttrice sotto il profilo dei significati, il noto semiologo statunitense sosteneva che un’attività di ricerca comincia sempre da un sentimento di insoddisfazione. Un evento che ha destabilizzato l’omeostasi interna, costituisce un punto di inizio per riconquistare l’equilibrio, apportando anche eventuali cambiamenti a favore del progresso delle proprie strutture. Sempre secondo l’autore appena citato, la fase seguente all’insoddisfazione è l’irritazione, generata dalla conoscenza e dalla scoperta del problema, la quale apre al dubbio, condizione potenziale per il passo successivo, ovvero il processo di ricerca, che conduce alla costruzione di una propria credenza. Quest’ultima sarebbe da considerare nel suo carattere aleatorio di provvisorietà, in quanto l’esperienza umana tenderà a perpetrare il ciclo algoritmico del problem-solving.

Insomma, considerare l’equipaggiamento culturale, dentro il percorso più o meno articolato della ricerca o soluzione di problemi, è un criterio fondamentale per la comprensione di tale processo, dal momento che vi sono scuole di orientamento diverso rispetto per esempio all’impostazione proposta dal modello occidentale. Secondo un certo paradigma di tradizione orientale, infatti, il problema è dato dalla resistenza e dalla rigidità con cui noi ci opponiamo agli eventi ed alle circostanze. Sono precetti teosofici che hanno dato luogo a discipline in cui spirito e corpo conservano la loro unità originaria e la loro alleanza sinergica primordiale. E se anche alcune scuole di filosofia occidentale hanno in parte aderito e sposato tali insegnamenti, per la maggiore, soprattutto considerando la contemporaneità, il maggiore attaccamento alla dimensione materiale segue tutt’altro che “la via dell’acqua”. Dalle nostre parti è d’abitudine affrontare il processo del problem-solving secondo parametri che includano controllo, previsione e pianificazione, ovvero elementi legati alla necessità diffusa di accrescere i vantaggi e contenere i costi, soprattutto nel campo immediato dell’utile, per ottimizzare ricavi di tipo materiale. Dentro questo paradigma diventa essenziale monitorare, guidare, dirigere, misurare e ri-qualificare la performance, migliorare l’efficienza e il risultato.

Tuttavia, al di là del percorso epistemologico scelto, anche sulla base della maggiore necessità individuata, il problem-solving presenta almeno le seguenti opzioni attraverso cui esplicitarsi:

 

_ Invenzione: IL PS può sollecitare la nostra capacità di modificare il campo dell’esperienza a tal punto da ricercare ed introdurre novità, anche di carattere propriamente oggettuale. Dopotutto, le invenzioni non sono forse collegate alla dimensione del desiderio, del sogno, dei bisogni e delle velleità umane?

 

_ Scoperta casuale: IL PS può essere percorso e soddisfatto anche perché in modo fortuito si perviene ad una conoscenza non sperimentata prima.

 

_ Tentativi ed errori: I sentieri della ricerca sono connotati dall’attitudine a sperimentare e provare, e pertanto è certamente frequente imbattersi nell’esperienza dell’errore, la cui efficacia può consistere nel gestire lo stesso in modo da non ri-generare le condizioni per poterlo ripetere, ma verificare invece nuove possibili strade e ipotesi di indagine. Condizione, questa, che include potenzialmente l’esperienza del nuovo errore, a questo punto considerabile come fonte sostanziale di apprendimento.

 

Ma a fare la differenza fra un problem-solving efficace ed uno di tipo superficiale è l’attitudine formata a riflettere sui dati dell’esperienza conseguita. Questo modo di procedere, infatti, offre qualità ad una eventuale rielaborazione e ridimensionamento del problema, dilatando il tempo per pensare con più franchezza e lucidità, quindi reperendo strumenti e incrementando strategie dapprima non considerate. È una sintesi in altre parole del pensiero appartenente al filosofo John Dewey (1859 – 1952), il quale sostiene che il percorso verso la risoluzione dei problemi si articola su 5 passaggi:

 

a ) Suggestione. Un evento stimolo più o meno complesso che ha turbato la stabilità di ciò che è già noto, e che per questa ragione ci tende a ricercare l’equilibrio perduto, stimolandoci a una reazione.

b ) Individuazione. Accade quando un’idea, sottoposta alla rigorosa e severe analisi della logica e della riflessione, acquista maggiore chiarezza e definizione.

c ) Ipotesi. In virtù dell’idea precedente, si profila la teoria solutoria, non sottratta comunque al vaglio della verifica.

d ) Ragionamento. Ciascuna idea è valutata in funzione della rete di rapporti con le altre idee, nel tentativo di potenziarne il tessuto connettivo e ridefinire il quadro complessivo della situazione.

e ) Convalida. L’approccio empirico all’idea da luogo alla verifica su di un piano tangibile e concreto, confermando o invalidando l’ipotesi iniziale.

 

La questione della verifica è di fondamentale importanza, quando si deve testare la fattibilità progettuale di un’idea. Prendere atto del risultato, anche in funzione delle proprie aspettative, denota l’impegno nel ri-organizzare le ipotesi di partenza o ristrutturare parti dell’edificio problemico. Si può cogliere, tutto sommato, l’importanza della flessibilità, per rilanciare la propria azione tendente alla risoluzione, prospettandone una maggiore efficacia.

In definitiva, anche se la razionalizzazione del percorso è condizione necessaria per affrontare la situazione problemica contando su competenza, efficienza e preparazione, non si rivela sufficiente di fronte a ciò che si presenta come imprevisto, e che richiede pertanto il ricorso a una “risposta di scorta”, frutto del pensiero divergente e creativo, di chi sa che tutto procede lineare solo fino a quando una improvvisa variabile inattesa viola il principio di non contraddizione. La logica proposizionale di Aristotele (384 – 322 a. C.) resta valida fino a quando tutto ricade dentro il recinto del prevedibile. “Se X Allora Y”, ci spiega il filosofo di Stagira, dandoci un modello euristico esposto al flusso imprevedibile della vita che tutto può rendere instabile e transeunte. È ciò che abbiamo imparato valutando il modello comportamentale in seno all’unità TOTE, in cui il risultato verso la soluzione (Exit) è data dalla ricognizione-correzione (cioè perfezionamento) dei dati ricavati dalla prima analisi o esperienza fattiva.

È dunque importante includere e considerare la complessità, anche perché in corso di risoluzione di un problema, nel caso occorrano tempi più estesi, fatica crescente, disattese sui micro-obiettivi e maldestra gestione della frustrazione che vi è implicata nel cammino, la distanza percepita fra desiderio e traguardo può diventare insostenibile e far cedere il soggetto verso la rinuncia e la ritirata.

Come specialisti della relazione di aiuto, sarebbe dunque utile poter offrire al cliente una piattaforma di pensiero su cui poter originare ogni possibile azione immaginata, combinando la necessità di struttura con la dimensione del sogno, facendo dialogare compiutamente la ragione con il desiderio, gli algoritmi con la fantasia, la task analysis con le emozioni.

Il modello ‘persona’ sarà così abilitato a soddisfare ciascuna istanza di sé, senza sentirsi scisso e diviso nelle sue componenti, in quanto un problem-solving efficace, oltre a compiere una sana manutenzione dei risultati ottenuti , si sarà rivelato tale anche perché ha servito ed appagato la missione formativa dell’individuo umano che sceglie di ascoltare la sua coscienza, nella consapevolezza che ciascuna risposta a cui è pervenuto è partita da una domanda, ovvero da un rispettivo quesito che narra la nostra storia e che disvela la nostra personalità.

Il percorso solutorio di un problema si congiunge concettualmente, in questa chiave di lettura, al modello maieutico di Socrate (470 – 399 a.C.), in cui l’arte di fomentare domande provoca una visione di sè sempre più edificante, fino al raggiungimento della conoscenza di se stessi.

In questo senso, a mio avviso, il problem-solving potrà acquisire una essenziale funzione di elevazione, emancipazione e sollecitazione evolutiva della persona, in quanto da strumento essenzialmente operativo, potrà invece sostanziarsi come una vera e propria esperienza umana, profonda, fondante, trasformatrice, in grado di far esprimere a ciascuno il meglio di sé. 

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