la palestra di ...relazioni con l’altro


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la palestra di ...relazioni con l’altro

            Alessandra Nesti  (La ricerca Periodico quadrimestrale, Loescher, Anno 2, Numero 5, Nuova Serie, Marzo 2014)  definisce "palestra di relazioni con l'altro" la scuola e della scuola elenca con chiarezza i compiti:

Insegnare le regole del vivere e del convivere è per la scuola un compito oggi ancora più ineludibile per diverse ragioni, fra cui hanno particolare rilievo il processo di globalizzazione e i consistenti flussi migratori degli ultimi decenni.

Educare alla diversità significa insegnare la capacità di guardarsi negli altri come in uno specchio complesso, per riconoscervi quanta sfumatura dell’altro/dell’altra ci sia dentro di noi; riconoscere quanto di differente, di fuori dalla norma, di non appartenente alla maggioranza sia in ciascuno di noi.

 

Educare alla diversità significa ampliare il numero e il repertorio dei significati possibili, per poterli attribuire personalmente alle esperienze che viviamo e alle relazioni che intrecciamo, per non cadere nei significati proposti da etichette mediatiche, buone per ogni contesto e per molte situazioni, ma che non aggiungono vita all’esperienza.

Educare alla diversità significa lasciare cittadinanza alle emozioni, consentire che siano espresse, aiutare a rifletterci, a viverle e gestirle, nel rispetto degli altri, imparando a separare emozioni e comportamenti. Esperire la differenza attraverso l’incontro rimane il metodo migliore, il più dirompente, quello più entusiasmante, che fa traboccare di gioia per la scoperta vera che rappresentano gli altri.[...]

            Credo che non si possa che essere d'accordo, sottoscrivere e augurarsi che tutto ciò si realizzi, tuttavia, leggendo, tante interrogazioni si sono affastellate nella mia mente e la prima riguardo all'affermazione per cui Insegnare le regole del vivere e del convivere è per la scuola un compito oggi ancora più ineludibile per diverse ragioni, fra cui...

È vero, oggi viviamo la multiculturalità, tuttavia non da oggi viviamo la diversità e non era forse importante, ad esempio agli inizi del secolo scorso, insegnare che l'alunno che arrivava a scuola a piedi, attraverso i campi e malvestito non era diverso dal figlio di buona famiglia che abitava a due passi ed era sempre ben vestito? Sarebbe stato urgente farlo ed essenziale, ma forse la buona volontà di pochi ad impegnarsi per un simile alto scopo è stata impedita dai tanti -adulti- che non ci hanno affatto creduto, se negli anni Sessanta, sempre del secolo scorso, un certo Don Milani scriveva Lettera ad una professoressa, puntando l'indice su vantaggi e svantaggi concreti che non dovevano d'ora in avanti decidere del destino del Pierino e degli altri.

            Forse oggi al quattordicesimo anno del Terzo Millennio, i risultati sono migliori? Qualche isola felice si incontra, certamente, ma da docente e non da estranea al mondo della scuola e dei giovani per i quali ora come agli inizi del mio insegnamento, mi auguro il meglio e ai quali rivolgo le mie energie, credo ci si debba ricordare prima di tutto che le finalità della scuola, per quanto ottime e condivisibili, sono gestite da noi adulti. Gli adulti, docenti e genitori, difficilmente alleati e quasi mai in sintonia per la crescita di figli/studenti.

Per questo mi chiedo: come riusciranno gli adulti ad insegnare le regole del vivere e del convivere, ad educare alla diversità nella scuola, se non terranno conto del contesto che fuori dell'aula, fuori della scuola smentisce ogni debole iniziativa positiva? Per fare questo, perché si può fare, occorre che gli adulti siano fortemente motivati, pienamente consapevoli del ruolo così complesso e meraviglioso che loro compete, desiderosi di aprire brecce negli animi dei giovani, dimentichi delle ore, del lavoro, dello studio che un simile enorme progetto comporta.

            Il ruolo di docente/educatore da sempre implicitamente ha comportato un coinvolgimento emotivo affettivo, oltre che cognitivo, proprio per conoscere e ri-conoscere in sé e negli altri le emozioni e imparare a gestirle, anziché subirle.

            Si fa un gran parlare della necessità di ascoltare l'altro, di creare empatia con l'interlocutore, della comunicazione efficace e circolare, come se tali competenze spettino agli specialisti, come il counselor, ma se il docente, fermo e statico sul suo presunto ruolo di mediatore culturale, o peggio di trasmettitore di conoscenze, non lavora per acquisire quelle stesse competenze che permettono al counselor di aiutare la persona in difficoltà a risolvere il suo problema, quel docente non è in  grado di gestire propriamente il suo ruolo.

            Una domanda che dovrebbe far riflettere ognuno di noi educatore è quella che più volte pone Elisabetta Madriz (Prendere forma per dare forma, 2011): come è possibile formare, se non si è pervenuti ad una propria assunzione di  forma ? e aggiunge  la professionalità si pone come una forma mai pienamente raggiunta, sempre aperta a ulteriori modifiche.  Come dire che non finiremo mai di formarci e mi auguro ancora che questo non venga avvertito come una condanna, bensì come la più bella opportunità che ci è data, di superare progressivamente i nostri limiti.

           La scuola potrà sì allora diventare palestra di relazioni con l'altro, proprio quando, come una comunità di adulti educatori/allenatori e giovani coinvolti e attivi, accoglierà e ri-conoscerà al suo interno pregi e difetti del contesto in cui opera e a quel contesto suggerirà comportamenti coerenti con un vivere finalmente civile.

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

 

 

 

 

 

 

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