RIFLESSIONI SULL’APPROCCIO ROGERSIANO. Il nobile peso di un’eredità scientifico-umanistica

Inviato da Nuccio Salis

carl rogers

Il percorso epistemologico che ha delineato il processo maturativo della relazione di aiuto, ha nel tempo offerto alla medesima approcci e metodologie validate sempre più dall’esperienza e da scuole di pensiero di orientamento olistico. Dalla visione frammentata “a scomparti”, dell’individuo umano, si è progrediti sensibilmente verso una riformulazione antropologica in grado di restituire a ciascuno la possibilità di una piena autonomia di se.

La finalità suprema, nell’approccio efficace in relazione di aiuto, si immedesima dunque nell’attribuzione del diritto a ritrovare se stessi, a manifestarsi in piena autocoscienza, a risvegliarsi dentro un nuovo orizzonte  esplorativo di tensioni dirette alla scoperta del proprio Sé. Riconoscere questa possibilità, verso il soggetto richiedente l’intervento di aiuto, ha significato, per diverse discipline orientate al supporto dell’altro da sé, seppur con strumenti e scopi differenti, una rinuncia al ruolo dominante del potere sull’altro, esercitato molto spesso per affermare se stessi e riaffermare il proprio prestigio o status professionale. Ovvero, l’espediente del rapporto di aiuto, si è anche tristemente declinato verso l’esercizio del dominio imperante da un soggetto più forte (il professionista) ad uno più debole (il paziente), ridefinendo proprio in quel micromondo l’ordine delle convenzioni e delle regole sociali diffusamente accettate.

 

La rivoluzione di tipo rogersiana, per esempio, si evidenzia a tutti gli effetti un’istanza innovatrice di matrice socio-politica. La messa a punto di un’accoglienza incondizionata ha costretto al ridimensionamento dell’autorità scientifica del professionista, rendendola una condizione di servizio e di trattamento motivato dalla favorevole accettazione del prossimo. La sfida a rinunciare ad un protocollo sicuro, caratterizzato dal controllo direttivo, ha squarciato il velo di Maya dietro cui si riparava il professionista, obbligandolo a mettere in gioco se stesso ed i suoi ostentati paradigmi ed assiomi della sua scuola di appartenenza. Ciò ha dovuto significare guardare negli occhi l’interlocutore, incontrare uno sguardo narrante e sentirne il respiro, l’odore;  scendere dall’olimpo della deità onnisciente e accogliere non solo un racconto, ma il raccontatore, non solo sentire una storia, ma ascoltare l’autore.

E tutto ciò non poteva certo risultare facile, per chi abituato ad esplicitare la sua opera con le procedure ed i dogmi della tecnica. Possiamo immaginare la difficoltà dell’affrancarsi dall’immagine prepotente del guru che sollecita ed indirizza secondo i propri modelli esistenziali, aderendo così anche alle richieste sociali, e in obbedienza alle aspettative diffuse che delegano al professionista una funzione di “normalizzazione”.

La sfida rogersiana si è palesata come un violento sollecito rivolto non soltanto alla comunità scientifica, ma anche (e forse soprattutto) ai modelli macrosociali della comunicazione, inevitabilmente scossi dall’impiego di una nuova modalità di confronto con l’interlocutore. La nuova sensibilità crescente, a seguito della proposta di Rogers, non si limitava a collaudare procedure metodologiche peraltro sofisticate e non certo prive di scienza, ma diventava al tempo stesso anche una revisione critica a modelli di relazione troppo spesso fondati sulla strumentalizzazione del potere da un soggetto dominante (up) nei confronti di un soggetto dominato (down). Questo era più che probabilmente lontano dalle intenzioni dello stesso Rogers, al quale però fu riconosciuto un ruolo ed un esempio prezioso nella diffusione del valore della pace. Tanto è vero che ricevette la candidatura al Nobel per la Pace proprio lo stesso anno in cui si trasferì da questo pianeta.

Il merito straordinario della sua disciplina, se così la vogliamo chiamare, è anche quello di aver conservato il rigore volto alla validazione di un metodo o di un intervento, con tutta la necessaria procedura di raccolta dati, confronto ecc. arricchendolo di una componente umanistica che non fu prima di allora mai così pronunciata. Forse, è proprio questo stile di intervento che permette di collocarsi oltre il dualismo fra tecnica e umanità, poiché sembra assemblarle e soddisfarle entrambe con encomiabile equivalenza.

Da una parte, infatti, è fondamentale avanzare dovute istanze sul piano metodologico e strumentale, ovvero appellarsi alla necessità di poter affidarsi a un valido assortimento di “attrezzature” in grado di fare la differenza fra un approccio professionale ed uno ingenuo; e di poter contare al tempo stesso su un autentico e genuino spessore umano, garantito da una naturale propensione e curiosità verso il prossimo, pensato in termini di libertà personale.

La persona che Rogers mette al centro, in virtù di queste riflessioni, non è soltanto un individuo-cliente incontrato nello studio, ma rappresenta in un certo senso tutti noi, co-creatori di trame esperienziali e costruttori di significato. E ormai, tutte le professioni di aiuto che desiderano eccellere in qualche abilità specifica che le consacri al riconoscimento accademico, sanno di poter ricercare e trovare una cornice di presentabilità ed autorevolezza soltanto se si ripropongono, volenti o nolenti, in veste rogersiana, anche qualora cerchino invano di distinguersene.

L’eredità degli studi rogersiani ha una portata che non può essere ignorata o sottovalutata. Il suo esempio si spinge oltre quello del ricercatore a tavolino, perché diventa vivo e carnale dal momento in cui sostiene l’importanza di maturare con una propria individualità, riscoprendo risorse e punti di valore; visto che egli, ciò che ha scritto, pensato, meditato e condiviso per il mondo, lo ha sperimentato su di se, con quello sguardo che forse dovrebbe possedere proprio chiunque faccia il counselor, cioè lo sguardo di colui che vede le onde infrangersi sullo scoglio, e si meraviglia per la vegetazione marina che ritorna in piedi, seguendone il flusso, senza farsi distruggere.

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