CHAT… E POI? Sulle odierne difficoltà della comunicazione interpersonale

Inviato da Nuccio Salis

chatSe fosse ancora fra noi Eric Berne, egli avrebbe certamente nuovi campi aperti di ricerca da esplorare. Il fondatore dell’analisi transazionale ci ha insegnato, con un linguaggio preso dalla vita quotidiana, dal cinema e dai miti, sull’importanza dell’influenza delle relazioni nell’esistenza di un individuo.
Principalmente, lo psicologo citato ha diretto e focalizzato la sua attenzione su come le dinamiche comunicative fra soggetti umani coinvolgano la loro struttura interna di personalità, costruita secondo una combinazione fra esperienza passata e scelte di vita. Il primo fattore maggiormente legato al recupero e alla riattivazione elastica di emozioni pregresse e fissate nei propri modelli interni, il secondo fattore è piuttosto legato alla possibilità di una personale ed autonoma rinascita e ristrutturazione, dovuta essenzialmente alla capacità di contattare e sviluppare la propria energia di cambiamento che Berne chiamava phyìsis, riconoscendo all’individuo umano l’abilità di mobilitarsi verso il nuovo, transpersonalizzandosi secondo un percorso di consapevolezza e autonomia.


Fu questa, fondamentalmente, la novità più rilevante che diede all’analisi transazionale una sua specificità epistemologica che la legittimò come indirizzo e orientamento di ricerca e applicazione, distinta seppur profondamente imparentata con la psicanalisi di matrice freudiana.
L’altra novità evidente che ne rappresenta il fulcro sostanziale, consiste nell’importanza attribuita alla costruzione e gestione dei rapporti umani dentro le cornici spazio-tempo al di dentro delle quali gli individui si confrontano e avvicendano le loro personali biografie, dando luogo a processi di scambio che possono essere caratterizzati sia da modalità costruttive che al contrario da impasse comunicazionali che nascondono l’autenticità personale di ciascuno, ingabbiandolo dentro ruoli prescritti che fomentano il palcoscenico della vita.
La salute nei rapporti umani, dunque, è un tema di così notevole spessore nell’ambito dell’approccio transazionale, che questo viene indagato anche allo scopo di scoprire e collaudare strumenti di interazione che generino e facilitino scambi comunicativi efficaci, ovvero strutture di rapporti che determinino rapporti produttivi di alleanza e reciproco sostegno e vicendevole comprensione fra le persone.
Le difficoltà della comunicazione, paradossalmente, si diffondono sempre più proprio mentre aumentano per numero e qualità gli strumenti attraverso i quali connettersi, collegarsi e inviarsi rapidamente informazioni anche a distanza, facendo giungere in taluni casi anche la propria immagine in diretta.
Cresce insomma l’alfabetizzazione digitale agganciata ai sofisticati supporti di trasmissione, e al tempo stesso sembra anche diffondersi un fenomeno di analfabetismo di ritorno che pare riguardare, oltre alle forme classiche dell’organizzare e comporre l’informazione da inviare, anche aree come la capacità di ascolto di se e dell’altro.

 

Quello che possiamo chiederci è se la tecnologia legata ai dispositivi di comunicazione abbia o meno migliorato le capacità comunicative degli individui, in termini di competenze relative a:
a) curiosità e impulso alla ricerca dell’informazione;
b) comprensione del dato;
c) riconoscimento di esso mediante flessibili processi di valutazione e nomenclatura;
d) eventuale elaborazione critica dello stesso;
e) utilizzo creativo e ri-combinatorio dell’input di conoscenza e seguente condivisione;
f) valore formativo riconosciuto all’esperienza dello scambio;
Mi chiedo se i precedenti punti abbiano subito un’impennata di qualità soprattutto se considerati nell’ambito dell’esperienza relazionale.

 

Il punto è che, secondo me, la tecnologia di per se non ha interferito negativamente sulle capacità comunicative e relazionali, sembra piuttosto averne fatto emergere le preoccupanti difficoltà che erano già presenti. Essa, cioè, avrebbe messo in maggiore evidenza un problema sommerso o del quale non si poteva che osservarne solo la punta dell’iceberg.
Le difficoltà diffuse nell’approccio e nella gestione dei contatti interpersonali, che si riscontrano nell’utilizzo di mezzi di contatto informatico a distanza come ad esempio le chat e i social network, rendono conto di un generale livello qualitativo che sembra non rispondere ai criteri sopra riportati, in merito alle capacità comunicative ed alle occorrenti modalità di pensiero nelle svariate forme di: ipotesi-deduzione, analisi-sintesi, ristrutturazione-lateralità, riconfigurazione nella rappresentazione e nel vissuto.
Rimango particolarmente colpito da quella che io chiamo la “mi piace generation”, quella che clicca “mi piace” sotto l’immagine di un bimbo trucidato dalla guerra o deformato dalla radioattività, e che pigia il medesimo tasto sotto il volto di un ragazzino defunto di fresco da incidente mortale. Si sceglie così la via del riposo cerebrale, dell’economia cognitiva, dentro un ripetuto rito di semplificazione, alterando e rendendo equivoco il senso di una partecipazione probabilmente fittizia.


A chi non è capitato, ad esempio, di ricevere un messaggio privato da un social network, con un semplice “ciao”. Sintetico, invitante, impeccabile, al quale risposi con un altrettanto laconico “ciao”. La risposta che seguì, ovviamente dopo qualche giorno, per lasciare all’utente il giusto tempo necessario ad enucleare eruditi concetti, fu “ciao”! Così rilanciai il mio secondo “ciao”, dopo il quale, forse per ispirazione o suggerimento esterno, l’utente riuscì ad aggiungere qualcosa dopo il “ciao”… una faccina sorridente!
L’argomentazione cominciava ad assumere un inatteso spessore. Così rinviai anche io una faccina col “ciao”, aspettando che l’utente, che aveva sollecitato questo proficuo scambio corroborante, vi allegasse un piccolo messaggio, un invito anche banale. Naturalmente, come tutta risposta, ebbi di nuovo “ciao”! E così andammo avanti fino a 6 volte. L’ “e-pistolario” si fece decisamente scottante, a tal punto che azzardai, e dissi la mia: “che profonda conversazione!”, mi sentii costretto a ribattere, e stavolta infatti ci vollero giorni per ricevere finalmente, non più un solitario e monotono “ciao”, ma niente di meno che… una faccina solitaria, stavolta più sorridente di quella precedente.


Una seconda volta che mi capitò, fu proprio quella che mi ispirò a scrivere questo articolo, perché di fronte a una persona che commenta i tuoi pensieri e le tue riflessioni con “uhm”, “già” “eh eh”, ecc. continuando in buona sostanza a cercarti per non parlare di niente, senza avere argomenti né pro né contro, non mi rimase che chiederle, una notte che mi ricontattò: “Di cosa NON vuoi parlarmi, oggi?”
E così mi ritornò alla mente un importante testo del buon Eric, intitolato “Ciao… e poi?”, in cui Berne illumina sapientemente sugli ostacoli e gli schematismi stereotipi della comunicazione e nei seguenti legami interpersonali.
Problemi decisamente presenti tuttora, benché informatizzati. Penso all’espediente dell’emotikon e mi chiedo se sostituisce forse un finto sorriso, la fretta di tirare avanti e oltrepassare gli sguardi. E mi domando anche se la presenza-assenza di chi solleva la mano ma non ha nulla da dire, prende il posto oggi di chi si allinea al codazzo degli argomenti superficiali e ritriti.
Le abbreviazioni “vbn”, “xfetto”, “cmq”, denotano la fretta, e un certo innegabile impoverimento nella padronanza linguistica, che sembra proprio inesorabilmente destinato a crescere.
L’inganno linguistico della famigerata “era della comunicazione”, allora, non sembra che essere una burla dovuta solo a uno slogan di un market della comunicazione poco o per nulla interessato ad avere cura della comunicazione da intendere come processo relazionale che fa propendere alla qualità formativa dei rapporti e dunque della salute personale.
Insomma, abbiamo gli strumenti, ma non sappiamo ancora governarne il processo. La maturità dei primi non coincide con l’immaturità dei fruitori annessi.
Il bisogno educativo e formativo per comprendere il fenomeno della comunicazione, permane dunque una centrale necessità ora e soprattutto nella società odierna, perché in fin dei conti, anche guardando a ritroso, quella società che studiava Eric Berne, su questo aspetto, in fondo non è mai cambiata.

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