L’empowerment e il sogno rapace. E se le aquile avessero ragione?

Inviato da Nuccio Salis

aquila anatraSe un aquila fa l’imprinting con un’anatra si crederà un’anatra, ed avrà discreti problemi per il volo. Certo, rispetto alle anatre, sarà strutturata per librarsi fra gli spazi infiniti del cielo, ma non se ne renderà conto. Le anatre, nel frattempo, la avranno addestrata a starnazzare, e poiché non è quello il verso naturale che le verrebbe di fare, le anatre si preoccuperanno con insigne pena per lei, e magari la porteranno da una logopedista, che le diagnosticherà la disanatria, un improbabile disturbo fonologico “Low Quacking” (a basso starnazzamento). Eh si, è grave, anche perché in comorbilità con la sindrome della mancanza del senso della vertigine, da cui però, via via, l’aquila comincerà a guarire, perché a forza di frequentare le anatre e ingozzarsi di becchime naturale o OGM in caso di allevamento, essa avrà imparato a non mettersi nemmeno il problema.

 

Le sue unghiacce ritenute antiestetiche le verranno rifatte dalla comunità delle anatre, di modo che non venga discriminata e derisa per la mancanza di un palmare! Del suo becco se ne occuperà un avvoltoio chirurgo che le darà un’aria tipo Archimede Pitagorico. La frequentazione di una buona scuola di non volo completerà il suo cammino. Certo, quando e se le capiterà di sfogliare un’enciclopedia illustrata sulla natura, magari la visione di una bella e maestosa vetta rocciosa le farà risuonare qualcosa dentro, una specie di motto di libertà che sa di eterna trascendenza. E forse comincerà a farsi delle domande, tipo se sia possibile volare, per esempio. In tutta risposta, però, avrà soltanto sorrisetti imbarazzati e sghignazzi irriguardosi al suo indirizzo, solo per il fatto di averlo chiesto. Le insegneranno infatti che non è bene perdere del tempo a pensare a cose impossibili, perché il suo ruolo è quello di abitare prevalentemente dentro una gabbia, a covare uova.

Mangiare becchime, covare uova, starnazzare in compagnia; la vita è questa e soltanto questa, riusciranno a convincerla, a farglielo credere. Troverà anche un pollo che la sposi, un giorno, con cui fare tanti paperini, e lei vivrà con quel qualcosa dentro che a tratti sembra una pietra che non si è riusciti ad ingoiare. Con questa parentesi introduttiva da fumettista mancato ho cercato di dire la mia su una questione molto importante, legata al fatto che in ciascuno di noi vive il sogno di un’aquila. Come riscoprirlo? Come dargli voce ed accoglierlo? Come superare il tabù di pensarci esseri trascendenti?

I percorsi, le circostanze e le sincronicità che conducono ciascuno di noi a misurarsi con la profonda realtà di se, seguono strade diversificate e di imprevedibile provenienza e direzione futura. Spesso, questo passaggio alla scoperta di se, che dovrebbe essere un esclusivo cammino di gioia e di luce, è contrassegnato dal dolore e dalla sofferenza, proprio perché per poter raggiungere quella luce dobbiamo prima riconoscere e di conseguenza svestirci di tutti i falsi profili di cui siamo ammantati, e destrutturare se non anche rivoluzionare tutta la costellazione delle nostre convinzioni limitanti ed oscuranti.

Accettare e saper dare un nome al travagliato patema che ci accompagnerà durante questa transizione, è il primo passo fondamentale per attribuire un valore di vitale importanza a tale scelta. L’iter esistenziale verso la verità è sofferto, poiché grande è il suo risultato: la riconquista di se, la consapevolezza che il sogno dell’aquila si può avverare: “Prendi la tua croce e seguimi” (Mc 8,34), ci invita Gesù, non ad una sofferenza di per se ingiusta o innaturale, ma resasi tale dalla continua e perseverante scelta della collettività a spegnere e rendere silente la voce della consapevolezza interiore di ciascuno.

E la verità non potrà mai coincidere con una sovrastruttura, ecco perché se diciamo di essere noi stessi non è vero, non può essere vero in questo mondo, dove l’identità passa soprattutto attraverso il ruolo sociale, l’appartenenza etnica e culturale, i possedimenti materiali e l’aspetto fisico; e tutti ne siamo circuiti, come un involtino primavera. Per essere realmente noi stessi dobbiamo rinnegarci, dobbiamo essere disposti a perdere la vita, che non significa togliersi fisicamente di mezzo ma avere la forza di lasciare tutto, da ciò chi si ha a ciò che si è; o meglio a ciò che si crede di essere.

Tutto questo, tradotto per le anatre si potrebbe chiamare empowerment. Letteralmente, come già sappiamo, significa potenziamento, e traslato da un filosofo dell’educazione italiano assume il termine “capacitazione”. Esso consiste in un percorso di estrinsecazione delle proprie capacità latenti, di tutte le proprie qualità, caratteristiche e attitudini per troppo tempo inascoltate, rinnegate, messe al bando, e che attendono latentemente di essere sviluppate ed espresse, tradotte in termini di risorse personali e punti di forza salienti ed investibili per accrescere le proprie capacità resilienti e costruttive.

L’empowerment è dunque un percorso auspicabile, una direzione possibile grazie alla quale affrancarsi definitivamente da un senso di se ridotto, da quell’”Io minimo” che vivacchia sovrastato da angosce, sensi di colpa, incapacità di offrirsi un senso nobile e quindi a ridosso del baratro della disistima e della dipendenza dalle illusioni. L’empowerment è insieme mezzo e fine per recuperare il senso di se originato dall’Amore primordiale, e scoprirne il legame con tale fonte medesima. È possibile che alcuni abbiano bisogno di continuo sostegno e puntuale stimolazione per poter prendere coraggio a compiere almeno i primi passi.

È qui che trova pieno senso e compimento la presenza di una figura dell’aiuto che interpreti, il più correttamente possibile, la rotta verso cui vuole navigare il fruitore della sua proposta di facilitazione. A tal proposito, a mio inutilizzabile avviso, può essere di aiuto guardare al nostro interlocutore come colui che possiede già le ali dell’aquila, e non gli resta che dispiegarle e librarsi verso i luoghi a se più graditi. Il risultato totale che egli otterrà durante questo percorso, se inizialmente coinciderà da un’apparente sommatoria semplice fra ciò che egli ha realizzato da solo e ciò che egli ha guadagnato anche attraverso l’aiuto (estensione prossimale), successivamente è auspicabile che sia in grado da solo di prendere la rincorsa e spiccare il volo.

Solo quando avremo imparato a guardare verso il basso senza provare vertigini, infatti, significa che avremo anche imparato a guardare verso l’alto senza provare dubbio e disgusto.

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