La PAROLA al cliente. Riscrivere insieme concetti e significati

Inviato da Nuccio Salis

microfono plateaIl significato che attribuiamo alle parole genera un campo rappresentativo anche dal punto di vista concettuale e connotativo del vocabolo medesimo. Il potere della parola, ben notoriamente sfruttato da certi presocratici, viene abilmente utilizzato dai contemporanei farisei quali televendite o un certo marketing politico, per buggerare, circuire, persuadere all’acquisto di beni di consumo massificato che nemmeno coincidono più con l’utilità funzionale dell’oggetto medesimo; hanno invece tutta l’aria di propinare idee, stili di vita, (dis)valori congruenti coi progetti dell’imbonitore e mai del destinatario.

Mi sento di fare questa introduzione in quanto, più mi dedico all’ascolto profondo e comprensivo degli individui ai quali oriento la mia attenzione, e più mi sembra di confermare che ciascuna visione di mondo sia con formula piena aggrovigliata al filtro del linguaggio. In pratica, la parola si pone come una vera e propria sovrastruttura di significazione dell’ambiente circostante. Tale rete è composta da una serie articolata di vocaboli con un certo valore evocativo. Quelli che ipoteticamente stanno all’apice di tale sovrastruttura, possono avere una maggiore forza di attribuzione di senso in riguardo alla realtà dentro cui l’individuo è immerso. Vi sono, in sintesi, espressioni il cui valore semantico può essere direttamente proporzionale al legame associativo che possiedono nei confronti di eventi, valori, concetti o credenze, maturate da ciascun soggetto nell’ambito della propria esperienza. Tuttavia, mi sembra di mettere sempre più in evidenza, esiste anche una sorta di vocabolario collettivo che sembra aver preso il posto della personale e libera capacità di attribuire significato agli eventi. Questo glossario massificato pare proprio aver rimpiazzato insieme alle parole, inevitabilmente, i concetti ivi apparentati. Una continua invasione di neologismi (in genere anglo-americani), dotte e complesse terminologie a derivazione greca o latina, licenze “poetiche” del linguaggio pubblicitario, o ancora vocaboli politicamente corretti; vengono continuamente utilizzati in modo strategico per suggestionare, confondere, spaventare, dare una parvenza di maggiore credibilità o autorevolezza. Mediante parole come “devolution”, “flessibilità del mercato”, “contributo partecipativo all’ingresso della Comunità Europea”, si cerca di nascondere, occultare o depistare dalla possibilità di affrontare ragionamenti nella trasparenza e nella chiarezza dei fatti e degli eventi.

Secondo la mia esperienza, ho maturato il parere che sono tante le persone imprigionate e beffate da una semantica stravolta che le ha svuotate, col loro concorso, da una possibilità emancipativa rispetto al tipo di realtà prospettata e descritta dal linguaggio. La parola offre una cornice che accomoda concetti, idee, sensazioni e aspettative sul mondo. È un vero e proprio filtro percettivo, uno strumento di interpretazione, una risorsa da questo doppio volto, può essere “Strega” o “Fata”, dipende dal nostro utilizzo, da come intendiamo risolvere il rapporto con essa. A fronte di tutto questo, dunque, ho elaborato la convinzione che un buon piano di aiuto da offrire al richiedente sostegno, coincida proprio nel guidare l’altro a prendere coscienza e conoscenza della sua griglia di parole; nello scoprire dunque insieme a lui quale peso semantico hanno le parole significative componenti la sua mappa personale di coordinate di significato, e quale conseguente buon uso si può fare di questa scoperta.

La portata di tale argomento può essere facilmente intuibile se si pensa a quanta letteratura (anche squisitamente pedagogica) sia stata prodotta intorno al tema del linguaggio. Da sofisti come Gorgia ai filosofi Socrate, Platone, passando poi nel Novecento con Gentile e Freire; queste grandi personalità hanno riconosciuto e messo in evidenza come la forza della parola possa esercitare un impatto dirompente e rivoluzionario nelle strutture decisionali dell’universo politico dentro cui co-abitiamo.

Eppure, parole come Potere e Piacere, per esempio, pur facenti parte dell’alveo denotativo del filtro semantico di un individuo, col quale si interfaccia col mondo, possono essere state col tempo stravolte nel loro originario significato attributivo. Mi spiego: il richiamo evocativo della parola Potere, si può facilmente prestare ad associazioni quali dominio, controllo subdolo o violento sul prossimo, imposizione, dittatura. Mobilitare il cliente a riprendere il Potere può suonare in modo sinistro, forse perché la bussola concettuale di significazione imputa una sorta di tensione all’imporsi con sopraffazione. Ma il senso legato alla parola Potere può assumere anche una declinazione da coniugare con il “potenziarsi”, nel significato di riconoscersi possibilità, opportunità, attribuendosi la libertà di assumere decisioni che prevedono anche rischi. Quindi di allargare il proprio bagaglio di risorse ed accedere a un percorso più variegato di esperienze.

Anche la parola Piacere è generalmente associata, nel vocabolario comune, ad una coloritura semantica che automaticamente induce a pensare all’abbandono edonistico, alla voluttà carnale, a qualcosa di peccaminoso, di proibito e vergognoso da rifuggire. Aiutare a rovesciare questa prospettiva, può significare aprire ad una visione che riabilita e rifonda il diritto a procurarsi “carezze”, per esempio, nel senso transazionale del termine, attraverso un’idea di se che non viene svalutata anche se si accetta di vivere nella dimensione della ricerca della gioia.

Se la parola è un punto di vista sul mondo, e se una delle tecniche del colloquio è la riformulazione figura/sfondo, che consiste nel mettere in evidenza ciò che è stato messo più al margine e al tempo stesso ridimensionare ciò che è stato maggiormente pronunciato; allora, a mio inutile parere, modificando il rilievo semantico delle parole, è possibile stimolare nuove ipotesi di ricerca di se o del problem-solving.

Bisognerebbe dunque far riappropriare il cliente al diritto di rimpossessarsi della parola, del suo potere magico, evocativo, ideativo e pragmatico al tempo stesso.

Un’idea che mi sobbalza quasi automaticamente è che sia possibile, con una certa frequenza di successo, deformare il significato sostanziale di un vissuto, mediante una trasfigurazione di parole che diventano referenti alternativi rispetto ai contenuti di cui sono intrise e partecipate. Una sorta di serie di note musicali da eseguire con tempi diversi, strumenti diversi, sperimentando nuove forme, nuove idee, nuove arie, alla ricerca di significati nuovi, autentici e finanche, perché no, anche quelli fino allora taciuti o nascosti.

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