CLIENTI APOLLINEI E CLIENTI DIONISIACI. Due modalità di adattamento all’umano esistere.

Inviato da Nuccio Salis

adattamentoCosa significa adattarsi? Ci sono almeno due accezioni differenti che gravitano intorno a questo concetto. Esiste un processo di adattamento da intendersi come risposta comportamentale congruente alle pressanti richieste dell’ambiente naturale. Tale dinamica è motivata da spinte di ordine biologico che, dai primi schemi di risposta riflessi passando per quelli istintuali, si articolano in successive impalcature comportamentali adattive, caratterizzate dalla capacità di combinare attitudini ed intelligenza pragmatica allo scopo di soddisfare il bisogno che ha originato la risposta medesima. Se tale ordine di bisogni rappresenta, però, la scala delle proprie motivazioni omeostatiche o primarie, la tipologia della risposta è una sorta di rispondenza omologata rispetto alle aspettative ed alle condizioni imposte dall’ambiente naturale. Riepilogando, con un esempio: “ho fame, devo procurarmi il cibo”, è un’esigenza organismica dettata dalla nostra struttura genetica. “Ho fame” indica un comando stabilito dalla natura senza mediazione, “Devo procurarmi il cibo” determina la conseguente preparazione e pianificazione per esercitare l’azione che tende alla realizzazione dello scopo.

Esiste anche un secondo concetto di adattamento. E questo fa riferimento ad un movimento attivo e ri-costruttivo che ci pone, nei confronti dell’ambiente, all’interno di una cornice dialettica e assiologica. Vale a dire che il nostro comportamento adattivo può non sempre essere condizionato da ciò che la natura ha inscritto in noi in termini di bisogni di base, e che può espletarsi proprio secondo un comportamento che, definendosi in strutture via via più evolute, tende a soddisfare bisogni la cui priorità si manifesta nel complesso mondo affettivo e nel sentire trascendentale. Si parla dunque di bisogni non omeostatici (seguendo la definizione dello psicologo Grossman). È questa serie di bisogni che, potendosi trasformare in una scala di valori ad essa rispettivamente associati, possono realmente emancipare l’individuo da vincoli sostanzialmente prevedibili e proiettarlo verso un atteggiamento costruttivamente attivo in grado di ascrivere significato alla realtà che lo circonda. Ed al tempo stesso a renderlo competente nell’affrontarla col massimo grado di impegno, di congruenza, di ricerca del senso e di accettazione del suo libero e dinamico fluire.

Credo che potremo chiamare il primo col nome di adattamento passivo, per quanto richieda un impegno attivo nel difendere l’equilibrio delle proprie strutture; tuttavia è proprio qui che sta il punto nodale dell’intero impianto argomentativo, in quanto questo tipo di adattamento ricerca tendenzialmente la conservazione. Questo non significa che non genera esperienza ed evoluzione, e certamente lo fa da un punto di vista funzionale, nel senso che può affinare la cablatura dei propri strumenti in vista di un fine che è e rimane la permanenza del proprio “stato di natura”. È l’adattamento della TECHNE’. Se vogliamo potremo anche definirlo apollineo, quindi di natura formale, attento al senso del limite e del controllo.

Il secondo modello di adattamento richiede la capacità di mettersi dapprima in sintonia con se stessi ed il proprio ordine di bisogni interiori, al di la delle prescrizioni timbrate nei nostri cromosomi. Questo secondo tipo di adattamento può definirsi, a mio insignificante avviso, creativo. È l’adattamento della PSYCHE’. Potremo, in antitesi al primo, definirlo dionisiaco, ovvero maggiormente proiettato alla distruzione di ciò che è noto, secondo un motto rivoluzionario e dirompente. Citerò con sommo senso di compartecipazione un pensiero dell’immenso Danilo Dolci (1924 – 1997), sociologo e pedagogista “planetario” ad honorem, il quale sostiene, in proposito:

 

“L’adattamento creativo si contrappone alla tendenza a ripetere prototipi comportamentali noti ma adatti, collaudati e certi ma spesso impropri al contesto così come di volta in volta si definisce nel qui-e-ora di ogni esperienza. Nell’ambito delle scienze psicologiche, una visione della crescita tutta centrata nell’acquisizione, l’apprendimento e l’integrazione del mondo dato, ha ormai lasciato il posto a nuove prospettive che riconoscono al bambino la competenza di costruttore del mondo di cui è parte. Si è orientati a ritenere che, fin dai primi mesi di vita, il bambino sia attivamente impegnato a costruire il senso di Sé attraverso una vera e propria capacità originale di organizzare i dati provenienti dall’ambiente circostante. I processi evolutivi salienti, si strutturano su capacità di apprendimento associativo. L’atteggiamento spontaneo del piccolo è teso, fin dall’inizio, in un’azione creativa sul mondo esterno che lo impegna oltre il dato, in una complessa operazione di costruzione della propria esperienza. Tra gli attributi essenziali del crescere dobbiamo però includere sempre sensibilità e creatività intesi come alto potenziale di costruzione e ridefinizione dell’immagine del mondo e dei suoi significati. Lontano dall’essere una qualità particolare di pochi, questa sorta di curiosità o tensione trasformativa verso le cose e l’ambiente è dunque il potenziale di ogni crescita e la condizione di ogni apprendimento” (tratto da: Danilo Dolci, “La comunicazione di massa non esiste”, Manduria, Ed. Lacaita, 1995, pp. 80-81).

 

La chiarezza espositiva di tale stralcio mi aiuta a chiarire ciò che mi sto impegnando a spiegare.

Dunque, sulla base di tutto questo, io mi sono domandato: ma se esiste un adattamento conservativo ed un adattamento creativo, e se è vero che entrambi vengono sollecitati e rispondono a rispettive motivazioni e desideri, allora esistono anche due tipologie di richiesta di aiuto (?) Cerco di spiegarmi ancora meglio: dal momento che dietro la richiesta di aiuto c’è sempre un’esigenza più o meno avvertita di ristrutturazione da parte del cliente, allora l’appello di cui ciascun cliente è portatore, a quale area dell’adattamento lo devo collocare? Ovvero, devo o posso chiedermi a mia volta se il cliente desidera ricercare un equilibrio perduto, una immaginaria arrampicata sulla valle di un Eden smarrito, e quindi rimettersi in una condizione di vincolo e di punto morto, oppure produrre quel caos che può generare una stella danzante? Insomma, adattamento come prona omologazione ai doveri ed alle richieste sociali, oppure stimolazione verso il naufragio, verso l’abisso, verso l’inquietante e ridestante viaggio di se?

Penso che su ciò debba esserci una forte stimolazione da parte del counselor verso il cliente, per consentire al suo interlocutore di avventurarsi ad esplorare scenari possibili, destrutturare figura e sfondo dei propri intrecci narrativi e concettuali, alla scoperta di una nuova vita, di un abbandono ascetico e amorevole a questo divino dono irrinunciabile.

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