Il counselor e l'horror vacui

Inviato da Nuccio Salis

horrorvacui erosieIl counseling assume spesso la forma del “sollecitare ipotesi solutorie”, “far emergere risorse e punti di forza del cliente, espandendone il profilo identitario”, “chiarire la struttura della trama narrativa riportata”, “ridefinire gli aspetti della vicenda secondo prospettive alternative”, “stabilire una tassonomia di micro obiettivi per realizzare percorsi di attivazione al cambiamento”, “ricercare strategie e risorse” quindi “programmare azioni congruenti per avviare concretamente il problem-solving”. Tutto molto ingegneristico e strategico, impeccabile dal punto di vista strutturale. Ciascuno di questi passaggi, in verità, mi evoca il concetto del “pieno”, del “concreto”, del “visibile”, del “dimostrabile”, del “verificabile” in modo rigoroso ed inappuntabile. Categorie scientifiche che mi sembrano sinistramente molto vicine a quelle della scienza naturalista ed al suo paradigma empirista di stampo galileiano, che trae la sua forza di validazione proprio da ciò che si può descrivere ed osservare solo sperimentalmente, spiegandolo magari con inconfutabili formulette matematiche.

È come se anche nella relazione di counseling, l’impegno inderogabile condiviso fra counselor e cliente fosse quello di allearsi sulla paura che sostanzialmente riguarda entrambi, come esseri umani: quella dell’horror vacui. Forse perché una certa cultura medicalista e positivista, a mio insignificante avviso, continua a contaminare l’approccio con l’altro, dentro la relazione d’aiuto. In ciascuno step pocanzi sopradescritto, vi è il linguaggio tipico della dottrina scientifica “positiva”, e sia il counselor che il cliente condividono una eguale cornice di valori storico-sociali, quel comune orizzonte di pensiero che ha ferito le loro rispettive esistenze e che ha motivato nel cliente la richiesta di aiuto con annesse discrepanze intrapsichiche. Così, spesso, mi appare il counseling; eccessivamente attorcigliato ad una dominante cultura scientifica di fronte alla quale, per sudditanza, sembra ricercare prono un suo modello definito per farsi riconoscere in modo distinto ed autorevole, per magari farsi ammettere nell’olimpo delle dottrine scientifiche degne di tale concetto. Ma tutto questo, lo so bene, è soltanto una mia impressione causata dal fatto che io al counseling ci credo, e siccome ci credo gli voglio bene, e poiché gli voglio bene, come ad un figlio, mi sento iperprotettivo e quando esce al freddo umido gli dico di indossare la sciarpa, e di guardarsi da chi gli si prospetta amico. Quindi, proprio perché gli voglio bene, esso non potrà diventare la mia religione e ancora meno una dottrina di vita, poiché volendogli bene come un figlio ogni tanto, per vivacizzare un po’ il rapporto e far emergere il sommerso, ci vorrei anche bisticciare un po’; in modo costruttivo, si intende. Spesso, nel suo schematismo così accurato riesce perfino a turbarmi assumendo declinazioni tipiche della scienza del dualismo ortodosso che soggioga il nostro modello di pensiero e dell’esistenza.

Mi spiego (ma non vi spezzo): Di frequente, un percorso di counseling lo si intende come un tentativo risolutivo per far prendere ad X1 il posto della inadeguata ed obsoleta X. È una ghiotta occasione per dimostrare all’interlocutore che i nostri metodi funzionano, che è possibile scegliere, e soprattutto scegliere bene, la cosa buona e giusta. Insomma, il giusto prende il posto dell’errore perseverante, la soluzione prende il posto del problema, il chiarimento prende il posto della confusione, l’attivazione si sostituisce alla passività; in pratica un coacervo di dualismi, di concetti antinomici come se si stesse parlando di una struttura concettuale fra opposti. Certo, ho detto “come se”, in quanto tale struttura avrà pur valore dialettico, relativo e non assoluto (ecco un altro dualismo). Sarà collocata, però, mi chiedo, veramente ed autenticamente, fino in fondo ai bisogni veri del cliente, oppure, in modo sofisticatamente inconscio, abbiamo “normalizzato” il nostro prossimo esattamente come fa per vocazione la scienza medica?

Il cliente è misura di tutte le cose, certo, parafrasando Protagora. Eppure il dubbio mi rimane, è libero per davvero? Riempirlo di possibilità, stimoli, motivazioni, esplorazioni aperte del vissuto e dei suoi contenuti ideativi ed esperienziali, è garanzia assoluta che tutto questo lo faccia dentro un rivoluzionario orizzonte di valori, oppure rientra dentro quello che ci si aspetta da lui, per consentirgli integrazione ed armonia in una società spesso co-produttrice di certe condizioni di disadattamento? Ed ancora mi chiedo (lo so, ho più domande che risposte), quanto è davvero pronto il counselor ad essere per il proprio cliente modello edificante ed avverso di destrutturazione riguardo alla nostra cultura del dualismo e della disintegrazione, sia concettuale che fattuale, in tutti i campi della vita?

Chi è quel counselor capace di attivare per se una resilienza creativa, che legge i fenomeni della vita in una chiave rivoluzionaria, che di fronte a chi gli confida che sente di smarrire la propria identità, lo invidia perché sa che è proprio sulla buona strada?

Chi è quel counselor che sfida i dogmi della scienza “ufficiale”, la nuova religione del terzo millennio, cercando di costruire uno spazio del vuoto, del nulla, dove tutto è pensabile e possibile ed anche i suoi contrari, in vista del superamento vero di tutti i dualismi cartesiani e non?

Fondamentalmente credo che aiutare il mio prossimo non significhi potenziargli strumenti personali per riuscire a farlo stare col mondo, quanto piuttosto fargli “vincere il mondo”. Allora mi riterrò preparato quando prima lo avrò vinto anche io. Al momento sono soltanto un allievo un po’ ribelle, proprio come gli ultimi della classe.

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