Storia di un counselor: come tutto ebbe inizio (almeno per me!) Sesta parte


storia di un counselorNota della comunità: questo articolo è stato suddiviso in 7 parti numerate

Inizio l’attività di sportello a novembre del 2001, presso l’Istituto Comprensivo Saluzzo-Plana di Alessandria. Da subito l’alta affluenza di ragazzi allo sportello ci crea molte difficoltà logistiche. Non di rado vengono richiesti due o tre colloqui nella stessa ora, tanto che presto si affiancherà a noi una quarta persona (Maria Cristina) per riuscire a soddisfare meglio le richieste senza effettuare “tour de force” inenarrabili. Per fortuna l’Istituto dove operiamo ci rende le cose abbastanza facili anche perché la struttura lo permette. La scuola infatti ha tre piani e una pianta quadrata con all’interno un enorme cortile. Questo fa sì che ci siano molte aule inutilizzate o addirittura completamente vuote. Tutti si dimostrano disponibili alla nostra richiesta di potere usufruire di più aule rispetto all’unica prevista in un primo tempo, ed è così che ci troviamo ad operare in svariati luoghi. Le aule da noi utilizzate hanno caratteristiche molto diverse tra loro. La stanza “ufficiale” per i colloqui è al primo piano (cioè esattamente a metà dell’edificio) e facilmente raggiungibile e visibile perché vicina alle scale. E’ sufficientemente ampia con, al centro, un grande tavolo. Su un lato della stanza, a destra della porta d’entrata, ci sono alcuni banchi addossati contro il muro ed un altro tavolo in fondo nell’angolo.

 

Di fronte alla porta d’ingresso c’è l’enorme finestra con due sedie un po’ più comode delle altre e quello è generalmente il posto nel quale si effettuano i colloqui. La stanza, inoltre ha ancora una preziosa caratteristica: su un angolo c’è una rientranza della parete che forma una nicchia e spesso, durante i colloqui, utilizzo questa particolarità della stanza per creare, assieme alla mia cliente, uno spazio protetto che “rappresenti” i luoghi (fisici e dell’anima) più diversi. Un’altra aula che spesso ci viene permesso di utilizzare è quella dove c’è il Laboratorio Linguistico, che viene utilizzata raramente e perciò è spesso libera. Si tratta di un’aula enorme, piena di banchi attrezzati per la traduzione simultanea (cuffie, separazioni in plexiglass tra un banco e l’altro, consolle operativa al posto della cattedra) e molto luminosa. Gli spazi enormi non compensano il clima generale dell’aula un po’ asettico e, per questo motivo, il Laboratorio Linguistico non è certamente il nostro spazio preferito per i colloqui di sportello. Di gran lunga migliore l’aula di sdoppiamento che si trova esattamente sopra la “nostra” stanza.

L’impatto visivo non è dei migliori: è piuttosto piccola e piena zeppa di banchi che impediscono grandi movimenti nello spazio. Come se non bastasse, vicino alla porta d’ingresso, tanto da rendere difficoltoso l’accesso, troneggia un pianoforte verticale. Infine ci sono due finestroni posti molto in alto che impediscono la vista al di fuori, lasciando passare una luce particolare, che crea un'aria un po' magica anche se non particolarmente luminosa. Eppure… Eppure questo spazio ha un certo fascino e invita a colloqui particolarmente creativi. Infine ci sono ancora due spazi che utilizziamo raramente: uno è l’Aula Magna, una stanza enorme con centinaia di sedie ed un palco con scrivania e microfoni. Decisamente troppo dispersiva; l’altro spazio è un’aula posta all’ultimo piano, e piuttosto difficile da raggiungere, che è completamente inutilizzata e quindi anche del tutto spoglia. Non una sedia (ne portiamo due noi), non un banco e nemmeno un quadro o un cartellone alle pareti.

Naturalmente nessuno di questi setting è perfetto per un colloquio di Counseling (solo la nostra stanza ufficiale ci si avvicina un po’ di più) ma, come ospiti di un’istituzione scolastica, non possiamo proprio lamentarci. In altre realtà conosciute dal progetto Testa fra le Nuvole (che io non ho mai visto direttamente) o da altri progetti simili con cui siamo venuti in contatto, la situazione è spesso più difficile ed è piuttosto frequente disporre di un’aula che ha magari tre o quattro destinazioni diverse ed è quindi soggetta a intrusioni improvvise nel bel mezzo di un colloquio. O ancora è possibile essere relegati in una sorta di “stanzino delle scope” (magari perché un po’ più grande del solito) se non addirittura in luoghi aperti anche se magari appartati. Il mio primo giorno ufficiale di sportello coincide anche con il primo colloquio, effettuato con una ragazza di 3° il cui nome, Serena (i nomi da me usati per i fruitori dello sportello sono ovviamente nomi di fantasia n.d.r.), è decisamente beneaugurante.

Si tratta di uno dei molti colloqui nei quali si apre e si chiude un ciclo all’interno del primo (ed unico) incontro. In questo caso ci sono anche motivi oggettivi: tra pochi giorni andrà in Friuli con tutta la famiglia. E’ venuta per curiosità e ha la modalità di buttare sul piatto tante cose per confondere chi ascolta. Mi faccio investire da questo fiume di parole per qualche minuto, poi le propongo di sdoppiarsi circa uno solo dei problemi che mi porta. Reagisce entusiasticamente e si alza per fare una delle due parti. A questo punto cambia improvvisamente tutto: mi accorgo che dove era seduta prima era troppo “chiusa” dentro se stessa. Cambia il tono della voce, il ritmo si abbassa ed entriamo un po' di più dentro le emozioni. Dopo qualche minuto si scuote e ricomincia il tourbillon di toni alti e problemi crescenti. Stavolta decido di giocare a carte scoperte e quando lei prorompe con: “La mia vita è tutta incasinata....”, le rimando che noto che lei cerca di farla apparire ancora più incasinata di quanto non sia per confondere e per non stare dentro l'emozione. Probabilmente riesco a farlo in un modo delicato, o comunque giusto per lei, perché risponde che è vero e che lo fa sempre con tutti perché non sopporta di stare male per qualcosa, di avere problemi e, soprattutto, che gli altri la compatiscano.

Così scopriamo insieme il vero motivo per cui è venuta allo sportello: ha una relazione con un ragazzo per lei molto importante che dura da quasi un anno; i genitori quasi non lo sanno e il fatto di dover trasferirsi così lontano le provoca dolore perché teme che la sua storia possa finire e per di più non è ancora riuscita, fino ad oggi, a parlarne con nessuno. Semplicemente poter esprimere questo disagio senza essere derisa o senza che questo suo sentimento venga minimizzato è per lei molto importante. Ora può partire più sollevata. Molti dei colloqui hanno uno sviluppo veloce. Una tipica modalità degli adolescenti che incontro allo sportello è quella di arrivare subito al punto, di sperimentare le sensazioni che dà loro parlare di quel determinato argomento, così da riuscire a “chiudere la gestalt” in due o tre incontri. Un tipico esempio di ciò è il breve ma efficace ciclo di colloqui con Eleonora. E. arriva allo sportello con altre due sue compagne. Vogliono fare un colloquio cumulativo perché una ha scelto di venire allo sportello, mentre le altre due (tra cui E.) vogliono prima “vedere com'è”.

Spiegando bene quale sia la filosofia ed il funzionamento del nostro sportello riusciamo a fare capire loro che la nostra proposta ha senso se rivolta ad un singolo individuo per volta e che altro spirito avrebbe se fosse intesa come “chiacchierata tra amici”. Convinte, accettano di avere tre colloqui individuali. L'amica che lo avrebbe fatto comunque va con Rosella, la seconda amica con Carlo, cosicché a E. resto io. L'inizio è giocoso: lei parte con: “Non ho nessun problema, sono qui per curiosità e perché “da grande” vorrei fare la psicologa. Mi piacerebbe entrare dentro la testa delle persone!”. Mi faccio la fantasia che questo sia un invito ad entrare dentro la sua testa e glielo dico; “Cosa ci troverei secondo te?” aggiungo. Rimane folgorata ed arrivano subito le lacrime. Viene fuori che ha dei momenti di profonda tristezza e che non capisce perché...... Va tutto così bene... Il tono della voce però è cambiato e adesso siamo in contatto pieno. Viene fuori una feroce competizione con se stessa e un'incapacità profonda ad accettarsi che la porta a credere di avere delle cose che non merita e che prima o poi qualcuno si accorgerà dell'errore e gliele porterà via così come gliele ha date.

Non so come (è una cosa che non faccio mai e della cui efficacia dubito) ma mi sento di darle un compito per la volta successiva: provare a fare caso a ogni volta che verbalmente le viene da deprezzarsi o da giudicarsi severamente e, dopo averlo notato, interrompersi nel giudizio negativo addirittura inserendone uno positivo dove lo ritenga opportuno. E di notare cosa succede di diverso se questa operazione viene fatta con una certa continuità e attenzione. Arriva al secondo incontro felicissima, non sta più nella pelle e continua a dire che ha funzionato (quasi non mi ricordavo più cosa), che le sembra cambi qualcosa nella sua idea di sé e che le cose intorno fluiscono meglio. Dice che il segno più evidente di come abbia funzionato è soprattutto il fatto che lei da anni fa lo stesso sogno quasi tutte le notti e la settimana successiva al nostro incontro lo ha fatto solo una volta. Me lo racconta: lei è a casa sua (a volte dai nonni) e verso l'imbrunire vede delle ombre e sente delle presenze che cercano di entrare.

A volte sono “solo” dei ladri (ma lei sa che non le faranno del male), a volte è un personaggio di cui lei non vede la faccia ma sa che ha un coltello ricurvo in mano (tipo scimitarra, dice) e che ha come unico obiettivo quello di “farle la pelle”. Spaventata lei si richiude progressivamente nelle stanze della casa fino a che arriva a quella più “interna” dove si sente al sicuro. A volte però il tipo misterioso arriva anche lì e sta per entrare quando lei si sveglia. Ripercorriamo il sogno e le chiedo di provare a identificarsi nelle varie parti che appaiono nell’attività onirica. Ci riesce bene con la casa: “Io servo a difendere E.”, ma non con Mr. X. Provo allora a suggerirle scenari diversi. Cosa succederebbe se, per esempio, parlassi a Mr. X? Inizialmente oppone un rifiuto secco: “Quello mi ammazza!”. Poi ci ripensa e dice che però le piacerebbe sentire cosa ha da dirle. Decidiamo che può provare a dialogarci ma prima ha bisogno di qualcosa che la protegga (una risorsa). Scartiamo lo scudo e la bandiera bianca (per motivi diversi considerati inefficaci) e allora lei sceglie un'arma da fuoco come deterrente al colpo di scimitarra.

Con quest'ancora ripercorriamo la scena e lei chiede: “Perché mi vuoi uccidere?”. La risposta è “Perché voglio la tua casa”. A quel punto lei si ricorda che, nel sogno, Mr. X appare sempre nella casa dei nonni e allora glielo dice: “Ma questa non è casa mia”. Mr. X allora se ne va. Lei si sente più tranquilla e pensa che forse è possibile dialogare con Mr. X. Il colloquio ha termine con lei ancora euforica e, adesso, anche sollevata da un peso (il sogno condiviso). Rimaniamo d’accordo che ci vedremo solo nel caso in cui l'incubo tornasse o lei sentisse la necessità di venire da me per qualsiasi motivo. In seguito passa spesso davanti alla “nostra” aula e tutte le volte mi saluta, mi dice che sta bene e mi fa ampi e felici sorrisi. Il colloquio che vorrei avere la possibilità di rifare avviene con Elena dopo circa un mese di attività di sportello, in una fase in cui commetto lo stupido errore di fidarmi troppo delle mie capacità intuitive perdendo un po’ di vista la persona che mi sta di fronte.

Elena porta un problema insostenibile con la madre ma lo dimentica quasi subito. Parla tanto del proprio nervosismo e del fatto che è una persona irresponsabile. Ha un movimento corporeo amplissimo, glielo rimando ma lei dimostra fatica nel fermarsi a dare voce ai propri movimenti. Ne minimizza l'importanza, cerca di scappare. La lascio fare ma le faccio notare questa sua difficoltà. Le chiedo allora cosa farebbe la sua parte irresponsabile, se potesse esprimersi. Si anima all'improvviso, di una vitalità fresca, potente. Glielo rimando e lei, stavolta, decide di starci un po'. Dopo un po' parla del suo gatto. Lei non lo voleva (le era appena morto un cane) e glielo ha dimostrato in tutti i modi. Nonostante questo il gatto l'ha scelta e continua a farlo. Mentre è dentro questa consapevolezza arriva l'emozione... Incalzo senza rispettare troppo i suoi tempi: “Che effetto ti fa essere scelta?”. “E' bello!”. Qui l'emozione è troppo forte, le vengono le lacrime ma le trattiene.

Le dico che durante tutta la seduta inizia a mostrare una parte di sé ma subito la nasconde perché sembra avere l'intima convinzione che non accetterò quella parte o che, molto peggio, la compatirò. Entriamo dentro le sensazioni ed io imperverso dando un feed-back (ma forse si avvicinava di più ad un giudizio…) che non ho mai più ricordato e che probabilmente è troppo invasivo perché le arriva un'emozione fortissima, scatta in piedi e scappa letteralmente via dicendo a malapena ciao... Non viene più allo sportello fino alla fine dell'anno. So di avere peccato di superficialità e di senso di onnipotenza. Porto la questione alla supervisione del gruppo di Testa fra le Nuvole e ci lavoro sopra un bel po’ per evitare che si ripeta un’altra volta.

La mia cliente più assidua del primo anno di sportello si chiama Giovanna, fa la 4° ed è una ragazzina minuta, con un'aria vispa e simpatica. Il primo colloquio lo facciamo nell'aula di sdoppiamento. Giovanna porta un problema relativo ad una sua compagna di classe che non ha cominciato l'anno scolastico corrente perché alla fine del precedente le era morta la madre in modo improvviso. Questo tragico evento la aveva cambiata completamente: non rispondeva alle telefonate, si era incupita (prima era una persona estroversa), non usciva più di casa, anche il resto della famiglia manteneva un silenzio omertoso e spesso la negava al telefono. Giovanna si dice molto preoccupata e vuole che la compagna torni a scuola e magari accetti di farsi aiutare, ad esempio venendo al nostro sportello. Mi colpisce che usi uno spazio dedicato a sé parlando così tanto di una compagna e le chiedo come mai, secondo lei, ha pensato di portarmi proprio questo argomento.

Lei si ferma, come folgorata, cambia il tono della voce, rallenta il ritmo delle parole e mi dice che da quando è successa questa disgrazia alla sua amica non fa che pensare a cosa potrebbe succedere se un evento del genere capitasse a lei. Non pensa di poterlo sopportare (scoprirò in una seduta seguente che lei abita con la madre e il fratello minore, di 11 anni, perché i suoi si sono separati da tempo) e arriva un'emozione di forte impotenza e sgomento. Dice che un evento simile la schiaccerebbe come un enorme peso sulle spalle. Decido di farle provare, amplificandola, l'esperienza del peso sulle spalle, glielo propongo e lei accetta di buon grado. Mi posiziono dietro la sua schiena e premo, dapprima leggermente e poi con più forza. Sento un cambiamento del respiro ma non riesce a esprimere verbalmente l'emozione collegata a ciò. Quando penso sia abbastanza allento e poi elimino la pressione, le lascio qualche minuto per pensare all'esperienza vissuta e poi le chiedo di verbalizzare se ne ha voglia. Dice che è stato liberatorio e che, in un primo momento, il senso di impotenza e oppressione era dominante, ma che poco alla volta era nato in lei il sentimento di non opposizione alla forza che la stava schiacciando e questa nuova consapevolezza le aveva dato un enorme senso di liberazione.

Stiamo per concludere la seduta quando lei mi dice che poi voleva anche portarmi il problema che, ultimamente, fa un’enorme fatica a studiare (cosa che invece le è sempre piaciuta) e non trattiene le nozioni acquisite. Le rimando di pensare al fatto che mi stava portando un problema così personale solo al termine di una seduta in cui aveva parlato quasi sempre della sua compagna, dopodiché ci salutiamo. Il nostro secondo incontro non è un colloquio di Counseling. Mi aspettavo che tornasse e che riprendesse l'ultimo argomento della seduta precedente, o almeno qualcosa che riguardasse lei, e invece arriva con una compagna di classe; mi dice che, come mi aveva detto la volta precedente voleva organizzare qualcosa per la loro amica rimasta senza madre e che, avendone parlato in classe, un nutrito gruppo era d'accordo e loro due venivano da me per concordare una strategia comune.

Accetto di parlare con loro spiegando che non stiamo facendo un colloquio propriamente inteso (che non farei mai a una coppia di amiche), ma che faremo solo una chiacchierata informale su quello che si potrebbe fare per aiutare veramente questa loro compagna (e non per risolvere un bisogno della classe), ammesso che lei voglia essere aiutata. Spiego meglio a entrambe i passi necessari per cui può essere possibile un nostro eventuale coinvolgimento ed anche i confini tra il comprensibile desiderio di aiutare una persona in difficoltà e l'altrettanto comprensibile diritto ad avere i propri tempi di elaborazione del lutto e che questi tempi meritano rispetto. Verso la fine del colloquio, Giovanna mi riaccenna, davanti all’amica, di quel suo famoso problema dello studio. Le ricordo un’altra volta che questo non è un colloquio tra lei e me e che di questo avremmo potuto parlare in futuro ed in un contesto adeguato, se lei avesse voluto.

Tra il secondo ed il terzo incontro passano tre settimane, probabilmente un buon tempo per metabolizzare la difficoltà a parlare di sé. O forse gli eventi fanno precipitare le cose. Giovanna arriva scura in volto. Dice che il suo fidanzato l’ha lasciata perché voleva riflettere un po’ sul loro rapporto. Rapporto che durava da quasi un anno anche se solo nell’ultimo mese e mezzo lei si era convinta che fosse una relazione su cui investire molto. All’inizio quel ragazzo buono, sempre disponibile e così perdutamente innamorato di lei non la convinceva del tutto, ma poi col tempo l’entusiasmo di lui aveva contagiato anche lei. E, proprio sul più bello, lui faceva marcia indietro. Finalmente riusciamo a dedicare un intero incontro a parlare di lei e delle sue emozioni rispetto a questa situazione e alla fine riprende un po’ del suo naturale brio e mi dà appuntamento al martedì successivo.

Dedichiamo molti degli appuntamenti successivi ad esplorare la questione, per lei importante e complessa, della sua situazione sentimentale e delle novità che intervengono di volta in volta. Intanto la decisione del fidanzato non è poi così definitiva ed anzi la loro situazione è sempre più ambigua: continuano a vedersi come se niente fosse ma poi lui, alla fine di ogni serata, le dice che non è giusto e che forse farebbero meglio a lasciar perdere perché non si sente sicuro. Inoltre dice di avere bisogno di spazio e della libertà di poter vedere altre ragazze senza per questo sentirsi in colpa. Giovanna è piuttosto scossa da questo comportamento che non capisce, né condivide. Ormai ha abbandonato la reticenza a parlare di sé ed anzi è sempre molto “presente”. Inoltre risponde piuttosto bene ai miei stimoli sotto forma di tecniche tipicamente gestaltiche (la sedia vuota, la drammatizzazione, l’amplificazione), dimostrando una buona capacità a mettersi in gioco Ripercorrere le emozioni legate alla sua relazione amorosa ci fa toccare diversi tasti dolorosi e delicati. Innanzitutto il rapporto conflittuale col padre, che lei dice di disprezzare per ciò che ha fatto a sua madre, a suo fratello e a lei (è andato via con un’altra donna quando Giovanna aveva solo dieci anni), ma del quale insegue costantemente l’approvazione.

Importante, a questo proposito, l’insight che Giovanna riceve durante una drammatizzazione in cui rappresenta suo padre che litiga con lei. Un’altra figura centrale nei suoi ricordi (soprattutto per l’importanza simbolica che riveste ancora) è la maestra delle elementari che le si rivolgeva con disprezzo, dicendole continuamente quanto fosse stupida. Ancora adesso, a distanza di anni, mi confessa di non avere cancellato dalla mente quella voce e quel giudizio tranciante, che opportunamente rievoca nei momenti di difficoltà per abbattersi ulteriormente. Anche in questo caso drammatizziamo la scena (con me stesso nella parte dell’insegnante) riproponendola in un primo tempo così come si era verificata nella realtà e, in un secondo tempo, cambiando il copione in modo positivo e facendo verbalizzare a G. le emozioni provate. In uno degli ultimi colloqui G. si ferma all’improvviso mentre mi sta parlando del suo fidanzato (ex?). Dice che è inutile per lei continuare a non voler affrontare la realtà, non è mai stata innamorata di lui e le è sembrato di impazzire quando lui l’ha lasciata solo per una questione di orgoglio ed anche perché questo le ricordava l’abbandono di suo papà.

Mi pare la degna conclusione di un importante cammino e adesso ci rimane una sola difficoltà: trovare un modo giusto per noi di salutarci perché è evidente che il nostro ciclo di incontri volge al termine.

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