Storia di un Counselor: come tutto ebbe inizio (almeno per me!) Terza parte


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Il mese dopo il difficile residenziale di Borla c’è l’appuntamento forse più importante (sicuramente il più sentito da noi) di tutto il secondo anno: la maratona a Roma! Anche in questo caso mi farò aiutare da un brano del mio verbale del Master: “La notte precedente la partenza per me è un inferno: non chiudo occhio e mi sento un peso enorme sullo stomaco. Certamente non è il peso del Sapere (purtroppo) e comunque non è piacevole. Dopo un avventuroso viaggio in treno, affrontato insieme con tredici colleghi, arriviamo a Roma dove scopriamo di essere alloggiati al Pensionato San Paolo (simpaticamente da noi ribattezzato l’ospizio!), che dista dalla sede del seminario circa un’ora tra metropolitana e autobus. Questo lungo viaggio urbano, inizialmente vissuto come una tortura, si rivelerà invece un’ottima fase di pre-contatto, al mattino, e di post-contatto alla sera, rendendo più stretta l’amicizia e la comprensione reciproca tra tutti noi.

 

Arriviamo puntualissimi all’A.R.S.A.P. (sede della maratona), ci danno le cartelline ed entriamo in Aula Magna. Si respira un'aria da college inglesi, una miriade di facce nuove, entusiasmo generale, penso di sfuggita che non sono certo in clima e provo un certo disagio. Finalmente vediamo LUI, Edoardo Giusti. Fisicamente si presenta abbastanza soft: uomo di mezz'età, sguardo vigile, grande personalità ma non vola, né ha tre teste o sembra disporre di superpoteri... Verbalmente si presenta molto hard. Questo l’esordio: “Iniziamo leggermente in ritardo rispetto all'orario prefissato delle 11”, tutto ciò mentre io meccanicamente rivolgo lo sguardo verso il mio orologio che segna le 11.03 (!). No comment...” L’esperienza romana è molto intensa: saranno gli orari massacranti (9-19 con solo un’ora di pausa pranzo: non a caso si chiama maratona), sarà il contatto ed il confronto continuo con tutte le altre sedi d’Italia, fatto sta che al termine della settimana mi sento come se avessi imparato tanto quanto in un anno intero e con un’irresistibile voglia di andare in vacanza per almeno 15 giorni… A Roma, frequentando i diversi workshop organizzati e potendo quindi fare esperienza con molti docenti, sviluppo l’idea megalomane di poter creare nella mia città (notoriamente restia a innovazioni o a iniziative in grande stile) una specie di polo gestaltico del Nord Italia con la possibilità di invitare a turno molti grandi personaggi e organizzare periodicamente seminari, workshop o convegni di interesse generale.

Tornati a Genova sottopongo questa idea ai responsabili del Master. La risposta è positiva. Seduti a un tavolo ci entusiasmiamo per le possibilità che potrebbero aprirsi e il risultato finale è che mi viene fatta una proposta ufficiale di collaborazione con l’A.S.P.I.C. di Genova. Sono al settimo cielo. Questa opportunità mi consente di provare ad attuare la mia idea ed anche di addentrarmi in modo concreto nel mondo del Counseling. Gli unici timori sono legati al fatto che penso sarà per me difficile gestire l’ultimo anno di Master con questo “doppio ruolo” ed infatti la realtà dimostrerà come questa preoccupazione non fosse poi del tutto infondata. Ma le soddisfazioni ricevute e la consapevolezza di avere svolto un buon lavoro (oltre che la stima nei miei confronti da parte di Paolo & Patrizia, che ho sentito da subito) mi rafforzano ulteriormente nella convinzione che la strada intrapresa sia quella giusta. Il terzo anno del Master è per me certamente più difficile dei primi due. Alla difficoltà a calarmi nel ruolo di allievo-ma-contemporaneamente-organizzatore-di-eventi bisogna aggiungere la fine di qualche “innamoramento” con alcuni membri del mio gruppo (anche se ho scoperto che alcune volte la fine dell’innamoramento può far nascere l’amore…) e la mia naturale difficoltà a sopportare i distacchi: tutto ciò contribuisce a rendere più tortuoso il percorso.

Un momento importante è ancora una volta la maratona di Roma che mi vede super-protagonista, quasi sempre al centro dell’attenzione anche mio malgrado. Intanto devo fare il famoso esame pratico. Consiste nella conduzione a tre (quindi con altri due colleghi) di un gruppo composto da allievi delle altre sedi d’Italia. Il mio terzetto si forma con un anno di anticipo. Durante la prima maratona dormo in stanza con Carlo e Giampietro e affino la mia già buona intesa con loro. Nasce in quell’occasione l’idea di fare qualcosa insieme e quando Giampietro ci racconta un suo sogno con dei cappelli come protagonisti l’idea prende forma. Decidiamo di portare a Roma un mucchio di cappelli diversi e di fare in modo che ogni membro del gruppo, attraverso un graduale percorso di consapevolezza, possa trovare il proprio cappello, quello cioè che più lo rappresenta e possa farlo parlare. Io propongo due titoli: il primo, “Tre diavoli per cappello”, viene scartato dopo un’iniziale preferenza a vantaggio del secondo che sarà quello definitivo e cioè “Tanto di cappello”. I partecipanti vengono fatti accomodare in un cerchio che ha al centro tutti i cappelli ammucchiati ma nascosti sotto un grande telo. Il risultato è dunque un enorme “fagotto” che durante le prove (ma a Roma non sarà così) spaventa non poche persone, facendo affiorare in loro strani fantasmi (“Mi sono fatto la fantasia che lì sotto ci fosse qualcosa di oscuro, un cadavere”, dirà qualcuno), tanto da mettere in dubbio la validità di questa trovata scenica che, a nostro parere, doveva essere giocosa e stimolare la curiosità. Il lavoro inizia con una presentazione condotta da Giampietro.

Dopo aver spiegato chi siamo e cosa andremo a fare insieme Gian invita tutti a presentarsi in un modo gestaltico: facendo cioè parlare quella parte, tra testa, cuore e viscere, che in quel momento è in figura, cioè in primo piano. A questo segue una fantasia guidata, condotta da Carlo, nella quale i partecipanti vengono invitati a chiudere gli occhi ed immaginare la storia di un cappellaio magico, della sua comparsa in un fantomatico paesino della Liguria, e di come si fosse sparsa la voce che lui fosse in grado di fare dei cappelli “su misura” per gli abitanti del villaggio (esplicativi cioè della loro personalità). La storia ha il compito di portare i partecipanti in una dimensione più immaginativa per poter affrontare meglio l’ultima parte dell’esperienza. Al riaprire degli occhi, infatti, i partecipanti vedono tutti i cappelli (scoperti da me e Gian durante la fantasia guidata) e vengono invitati a cercare, tra questa moltitudine, il proprio cappello, quello cioè che più di ogni altro li rappresenta. Quando ognuno ha trovato ciò che cercava ha inizio la terza parte del nostro lavoro che conduco io. Si tratta di far verbalizzare ad ognuno le emozioni provate durante la ricerca del cappello, cosa significhi tenerlo tra le mani o indossarlo, sperimentare le sensazioni provate a toglierlo e a rimetterlo, immaginare cosa direbbe il cappello se potesse parlare.

A questo segue una parte in cui i partecipanti vengono invitati ad “andare per il mondo” ognuno con il suo cappello in testa e a verbalizzare successivamente cosa sia cambiato rispetto a prima. E’ una parte che non siamo sicuri di poter fare visto il poco tempo a disposizione (e che infatti a Roma non riusciremo a proporre) e che studiamo in modo che possa anche essere bypassata in favore del feed-back conclusivo dell’esperienza, necessario per un buon post-contatto. Nel periodo precedente la maratona facciamo due prove (una a Genova ed una ad Alessandria) con risultati alterni. L’intesa fra di noi è buona e grande è la disponibilità a collaborare. Nonostante ciò ci sono alcuni momenti di tensione che ci fanno capire quanto sia difficile la prova che ci attende e quanto sia pericoloso il numero di tre per condurre un gruppo. A Roma siamo tra i primi ad effettuare la prova e, visto il buon risultato ed i commenti positivi ricevuti, possiamo goderci il resto della maratona (esame teorico escluso!) in santa pace. E certamente io non lesino in quanto a godimento… Il giorno dopo l’esame facciamo un’esperienza di video-modelling. Si tratta cioè di videocassette con i grandi maestri all’opera. Guardiamo un video di una seduta di Carl Rogers dopodiché il Dott. Giusti, commentando quanto visto, conclude così: “Bene ora uno di voi avrà la grande opportunità di fare l’importante esperienza di condurre un colloquio di Counseling qui davanti a tutti noi ripreso da una videocamera. Chi vorrebbe farlo?”. Cala improvvisamente il gelo sulla sala (siamo in più di 100) che, improvvisamente, si trasforma in un’aula di scuola superiore quando il Professore ha appena detto che interrogherà a sorpresa. Fischiettare, guardare in terra, fare finta di niente… Le tecniche così ben conosciute negli anni del liceo vengono puntualmente rispolverate da tutti noi.

Sappiamo che il Dott. Giusti ha ragione e che si tratterebbe di un’esperienza molto bella, ma il terrore di “esibirsi” davanti ad una platea così autorevole, ed in più sotto la supervisione suprema di quello che tutti noi consideriamo un mito, ha il sopravvento e nessuno osa proporsi. Edoardo Giusti non è certo il tipo che si smonta facilmente e allora, preso atto della nostra difficoltà, gira la domanda: “C’è qualcuno tra voi che vorrebbe fare il cliente nella simulazione di colloquio con videoripresa che andremo a fare?”. La richiesta risulta essere meno ansiogena (anche se di poco!) ed infatti due allieve della sede di Ancona si offrono volontarie. A questo punto, rivolgendosi alle volontarie, Giusti effettua la giocata del campione: “Bene, avete di fronte a voi un’intera popolazione di Counselor quasi diplomati. Ognuno di loro si proporrà con lo sguardo perché non abbiamo tempo di farlo a parole e ciascuna di voi sceglierà tre persone dalle quali andrebbe volentieri a fare un colloquio”. La tensione è altissima e provo allo stesso tempo il desiderio di essere scelto e quello di essere ignorato. Vengo scelto da entrambe (il mio narcisismo gongola, la mia insicurezza no!) ma c’è tempo solo per un colloquio e così i tre Counselor (tra cui io) scelti dalla prima persona che si era proposta sfilano davanti a lei.

Giusti a questo punto ci dice di provare a convincere con poche parole la nostra potenziale cliente a scegliere proprio noi. Decido di offrire ascolto, non giudizio ma soprattutto, per allontanarmi un po’ da questo cliché troppo rogersiano, movimento. La futura cliente sceglie me ed io non mi sento più le gambe. Il cuore batte all’impazzata mentre cerco di recuperare un minimo di lucidità e di rallentarne i battiti per evitare che fuoriesca dal petto. Vengo invitato a costruire il mio setting e questo mi aiuta a concentrarmi semplicemente su quello che andrò a fare: un colloquio di Counseling. Certo non capita tutti i colloqui di alzare lo sguardo e vedere un’Aula Magna gremita di persone, né Edoardo Giusti che, dal posto di comando vicino alla telecamera, mi dà le ultime indicazioni su cosa devo fare e sui tempi che devo rispettare. Ma sono in ballo, sono ben felice di esserci e quindi devo ballare… Come prevedibile, dopo i primi 40 secondi di difficoltà a staccare dalla situazione intorno a noi, il colloquio mi coinvolge ben presto nel “qui ed ora”. Sono solo con la mia cliente ed ascolto quello che lei mi sta portando.

Rivedendomi in seguito scoprirò di avere fatto un colloquio molto rogersiano e poco gestaltico e, anche se penso che questo non sia da me, ne rimango soddisfatto perché scopro di aver trovato nelle tecniche di ascolto attivo quella “base sicura” a cui appoggiarmi nelle situazioni difficili e ciò mi rende più sicuro. Il movimento tra me e la mia cliente è molto armonico ed il colloquio va piuttosto bene. Ricevo molti feed-back (in gran parte positivi anche se con qualche gradita critica che mi tiene ancorato ad un terreno che, in caso contrario, avrei lasciato almeno mezzo metro più in giù!) e poi tutti insieme riguardiamo il colloquio in video. Scopro che il regista si è soffermato molto sul non verbale smascherando il mio nervosismo con inquadrature in primo piano dei piedi che proprio non vogliono saperne di stare fermi... Nei giorni seguenti ho ancora molte occasioni di mettermi in gioco, ma nessuna così eclatante come il video-modelling, e così anche questa seconda esperienza romana mi lascia emozioni intense che ricorderò a lungo. A settembre c’è il residenziale di Pisa che ormai vivo quasi “da fuori”.

Infatti ho trovato io la struttura, l’ho visitata per ben due volte prima del residenziale, i responsabili dell’agriturismo nel quale alloggiamo si riferiscono a me per tutte le cose pratiche e lo stesso fanno anche quasi tutti gli altri allievi (alcuni addirittura si lamentano con me di cose inerenti la struttura o la scelta degli orari). Patrizia e Paolo provano a porre un freno a questa situazione dicendo a tutti che non sono io la persona a cui rivolgersi per questo tipo di esigenze ma il mio clima interno è ormai inquinato ed anche io, forse, vorrei essere lì più come organizzatore che come allievo. Un aspetto indimenticabile del soggiorno pisano è rappresentato dalle passeggiate serali in macchina all’interno del Parco Naturale di San Rossore (che ospita la struttura nella quale si svolge il residenziale) durante le quali incontriamo immancabilmente daini, tassi e altri animali non meglio identificati. Alcuni addirittura sono a pochi metri da noi e ci guardano come si osservano le specie rare (“Sono pazzi questi umani” devono aver certamente pensato). L’ultimissimo incontro del Master è abbastanza difficile. Fingiamo che sia un incontro come gli altri per tre quarti del tempo e solo quando veniamo messi di fronte alla realtà dall’orologio ci rendiamo conto che quell’esperienza lì, con quella struttura lì sta finendo.

Sicuramente potremo vederci in altri contesti (per placare la nostra ansia chiediamo subito a Patrizia & Paolo di organizzare altre iniziative formative), alcuni di noi inoltre vivono vicini o lavorano insieme (penso al gruppetto “dei milanesi” o anche a noi di “Testa fra le Nuvole”), ma certo è che non sarà più possibile ritrovarci in questo modo e con questa forma. Mentre scrivo questo, ancora adesso a distanza di mesi, non posso non provare un groppo alla gola e un senso di perdita. Mi pare che molti dei miei compagni abbiano vissuto e vivano tuttora la stessa emozione. D’altronde, non potevo certo scegliermi un gruppo che non avesse difficoltà nei distacchi…

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